UN’ALTRA RICCHEZZA: IL FIORE DEL PLEONASMO
Essenziale per proseguire nel viaggio, l’esperienza non è un bagaglio e non è accumulabile o vendibile. Eppure l’esperienza viene significata a partire da quanto è scartato dal canone ideale, guidato dall’idea di bene, dall’idea unificante. L’esperienza intesa in questi termini è già destinata, e finisce.
Non è questo che avviene nell’esperienza della parola in atto e gli oltre vent’anni di dispositivi della parola lungo l’esperienza della rivista “La città del secondo rinascimento”, giunta al centesimo numero, oggi costituiscono la testimonianza di un’altra ricchezza della parola che il discorso comune scarta: il fiore del pleonasmo. Di incontro in incontro, noi non abbiamo scartato niente del pleonasmo dell’atto, del pleonasmo della parola. Noi non scartiamo l’atto anomalo, perché in questo atto si producono effetti di senso, di sapere e di verità. Questo atto è pieno, non è mancante rispetto a una completezza ideale, perché esso ignora l’idea di sé, del tempo e dell’Altro. È l’idealità a partire sempre dall’idea di mancanza o di perdita. Quel che sembra perso resta invece nel pleonasmo della parola, come constatava l’imprenditore Carlo Dessy nel suo libro Qualcosa rimane sempre (Spirali).
Le categorie della comunicazione, della semiologia e del linguaggio sono fondate sull’idea di sé, del tempo e dell’Altro per rendere la parola finalizzabile, ovvero disciplinabile, applicabile come un pezzo del puzzle secondo l’idea di unità che si completa nella molteplicità e secondo l’idea di frammentarietà che si completa nell’unità ideale, secondo l’idea di sistema. Esse localizzano o spiritualizzano la parola significandola, per escluderne il lusso: la parola quindi non è in atto e diventa ricordo. L’esperienza sarebbe così contenibile nel bagaglio, che infatti pesa come ricordo, il cui valore sarebbe dato proprio da questo peso. Ma anche il ricordo è asterisco di costellazioni infinite nel pleonasmo della parola.
La luogocomunicazione dominante e imperante fallisce. In Italia ci sono oggi intellettuali, amministratori, imprenditori, scienziati, artisti, registi, poeti e scrittori che non accettano di localizzarsi, non si uniformano all’idea di sistema, e proseguono nel loro itinerario cercando interlocutori della loro scommessa intellettuale. Noi li incontriamo ciascun giorno nella città e nei dipartimenti di cifrematica, la scienza della parola, e proseguiamo insieme passo passo, man mano nel loro viaggio straordinario. È una questione di vita, quindi di parola, di memoria, di esperienza che non finisce, è questione di cultura e di arte che non si rassegnano al cerimoniale della morte come pena, alla certezza del nulla e della morte della materia per confermarsi come soggetto. È questione di memoria civile: ciascuno dimora nella vita secondo il rinascimento della parola e la sua industria, secondo la propria fabula, che è anche fabrica, che è anche il fare, la struttura pragmatica dell’esperienza in atto, la struttura della parola che esige l’istanza intellettuale, non l’intellettuale rappresentato secondo lo standard del potere, l’intellettuale organico. Questa istanza speciale non è appannaggio di una classe sociale. Questa istanza, l’istanza del valore assoluto, non è preclusa a nessuno. Privarsene ed escluderla, in assenza dei dispositivi della parola, comporta l’imbarbarimento.
Ma come avviene che avanzi la barbarie? La mitologia degli scritti fondatori delle dottrine misteriche, come i Veda, la ritroviamo poi nell’Avesta dei persiani, nella Bhagavadgita indiana, nell’Yijing cinese. È una mitologia che fonda il primato dell’unità e dell’uguale, nell’espunzione del due e dell’Altro. La logica delle dottrine misteriche, quindi anche da Aristotele in poi, si attiene al canone dell’uguale, che diviene canone mercenario. Anche l’interrogazione socratica, la logica del logos, della risposta fondata dalla domanda, è la logica della compensazione, sistematizzata nei princìpi aristotelici, secondo cui tutto è destinato, predestinato, già stabilito.
È sempre la stessa dottrina a partire dall’idea di uguale: uno è uguale a uno. Tutto deve tornare all’origine, cioè alla morte, al nulla ideale, alla purezza ideale. Ma “uno è uguale a uno” in nome di che cosa? In nome del nulla, della padronanza ovvero del principio di non contraddizione, del principio d’identità e del principio di terzo escluso. Per via di questi principi convenzionali, misterici, quale godimento, quale piacere potrebbero essere ammessi, ovvero non sottoposti all’ideologia dell’invidia e della vendetta? Anche l’impresa non può che essere messa a morte da questa logica barbarica. Con l’idea di uguale abbiamo le categorie dell’identico, del simile, dell’analogo e dell’opposto. L’idea di uguale è l’idea d’imperium, che realizza la volontà ideale attraverso la volontà dell’Altro, in riferimento all’idea del nulla che è idea di padronanza (dominium): entrambe si esercitano nel genocidio della memoria civile, del gerundio della vita che invece resta incancellabile e inarrestabile. Partendo da “uno è uguale a uno”, noi abbiamo l’idea di unità ideale, il principio dell’eutanasia che scarta la vita colpevole di non rispondere all’ideale di sé.
Eppure, ciascuno constata che l’idea di sé si dissipa nella lingua, che arbitraria è la materia della lingua, come arbitraria è la serie dei significanti che si combinano per l’intervento di un nome imprevisto. Questa arbitrarietà provoca la fatuità degli universalismi. Parlando, il significante che interviene non soggiace all’idea di morte, quindi non è significabile. Cinquant’anni fa, Armando Verdiglione scriveva: “Un significante è differente da sé: e questo rende impossibile ricondurlo a una relazione di opposizione. L’esistenza del significante costituisce così lo scacco della struttura formale. Un significante funziona nell’articolazione, fa l’articolazione, non fa parte dell’ordine stabilito. Un significante giunge non a garantire la coerenza logica dell’insieme, ma a segnare un elemento paradossale dell’insieme.”. “E la nominazione risulta fortuita. Non sorge per creazione, non parte cioè dal nulla e non invita a un ritorno” (La psicanalisi. Questa mia avventura, Spirali).
L’atto della parola non soggiace all’arbitrio della volontà, non consente di scartare l’elemento che non è identico a sé, l’ineguale, l’anomalia, non consente il sistema. L’atto arbitrario è l’atto che non si scarta, che non è ricattato dall’idea di sé che diventa spettro dell’Altro. L’esperienza in atto non si può scartare e non è replicabile. Il figlio, per esempio, non dovrà attendere la morte del padre per incominciare a fare; il padre non dovrà dimettersi per non togliere al figlio l’avvenire e, ancora per esempio, lo studente non dovrà “cimentarsi nello studio” vivendo nel rimando e nella remora in attesa del radioso avvenire. Questa mentalità, questa idea di sistema l’abbiamo constatata in occasione della rivoluzione comunista di Mao, quando il Libretto rosso doveva costituire il libro di riferimento dell’impero celeste, fondato sulla dittatura dell’unico.
L’esperienza in atto, l’esperienza nella parola, impedisce che un libro, dalla Logica di Aristotele al Libretto rosso di Mao, divenga il libro di riferimento. Il discorso delle dottrine misteriche è vanificato dalla nominazione, in cui, parlando, nomi e significanti entrano in gioco in modo arbitrario. L’instaurazione della nominazione avviene per un non che impedisce ogni mistica, un non che avvia una procedura intellettuale, una procedura per integrazione che non scarta il “niente”. Non è l’antico latino noenum, costituito da ne oenum, ne oinom, non uno. L’antica forma latina di uno è oenum, uno, più antico è óenos, l’antico greco oinós, in inglese one, in tedesco ein e così via. Uno non è uno. Questo non non è una negazione, ma introduce una differenza da sé dell’uno.
Se interviene il non uno, il sistema, la genealogia e l’archeologia, la topologia e la morfologia non tengono, in assenza di riferimento ideale, del libro di riferimento. Il non nella parola impedisce l’avere soggettivo e l’essere soggettivo. Allora, parlando, nel gerundio del fare, interviene l’esperienza. Prima di Leonardo da Vinci e di Galileo Galilei, nel Medioevo e poi nell’Umanesimo, l’esperienza non aveva alcun interesse, contava il sistema di riferimento, ecco perché Leonardo chiama “trombetti” coloro che credono all’idea di conoscenza, avendo come riferimento i princìpi aristotelici.
Nei dispositivi del gerundio della parola, l’esperienza è narrativa e ciascuno si trova a dire del niente del pleonasmo, di quello che non aveva da dire e di quello che non sapeva di dire. Gli enunciati “Non ho niente da dire” e “Non so cosa dire” non negano la parola, marcano la sua impadroneggiabilità e avviano alla constatazione: “Ho detto più di quel che pensavo” e “Ho detto cose che non sapevo di dire”. Incomincia qualcosa dell’Autore. L’arbitrarietà dell’esperienza comporta che la crescita, l’abbondanza e la superfluenza siano incalcolabili e inassegnabili. Per questo l’esperienza della parola, esperienza che non è ideale, attenendosi all’occorrenza anziché alle proprie possibilità ovvero ai propri limiti, giunge alla salute e alla cifra.