LA VITA ARBITRARIA
Quando, nell’atto di parola, non ci sono più la commemorazione o la rimemorazione proprie al cerimoniale, quando il sogno e la dimenticanza intessono il racconto che trae al valore delle cose, senza più l’azione che tutto ordina e l’inazione con cui tutto è ordinario, quando la festa è festa della vita, in cui gli algebrismi della genealogia del senso e le geometrie dell’archeologia del sapere non reggono più, la celebrazione è il processo intellettuale della parola, è l’itinerario stesso che si rivolge alla sua cifra, è proprietà del destino della vita. La celebrazione del numero cento di questa rivista, il cui numero zero fu pubblicato nel dicembre 2000, non è il compiacimento dei risultati, non è l’esaltazione di un successo, non è lo sbocco di un viaggio iniziatico: sarebbe la celebrazione di un sacrificio penale e penitenziario, la conferma che l’itinerario era sacrificale e deve trovare il suo riscatto nella festa comunitaria, nel riconoscimento sociale, come pretendono Emile Durkheim e René Girard. Ma il cerimoniale potrebbe fondarsi solo espungendo la celebrazione propria al sacro nel suo processo in direzione del valore, con il suo sacrificio senza sacralità, ovvero senza l’idea di morte e di pena. La nostra celebrazione è la constatazione di un’esperienza di ventidue anni di scrittura e di redazione, di impresa e di edizione. La nostra esperienza è particolare e, scrivendosi, in questi anni si specifica e si valorizza. Non è memoriale, è memoria in atto.
Ciascun atto è un atto assoluto, che non si ripete e non si rinnova. La prossimità filologica tra celeber e frequens sottolinea che la frequentia non contrasta con la tensione, con l’intensità dell’atto. Frequens: quante volte? Tante, quante e quali, quando la quantità e la qualità non sono quelle che vogliamo, sono in atto, inamministrabili. Celeber non è un atto dovuto, ripetitivo, rituale, religioso, è un atto arbitrario, che non chiede permesso né concessioni, che non sottostà all’arbitrio della volontà propria o altrui.
Come l’atto di fondazione di questa rivista, che non ha richiesto salvacondotti o aspettato aiuti dalle istituzioni, dai partiti, dalle consorterie. Allora come ora, un atto arbitrario e non mercenario, cioè non sorretto da finalità economiche, ma nemmeno dalla volontà ideale, dalla volontà di bene, che è volontà al netto della vita.
L’atto arbitrario è l’atto di parola, la parola in atto. In quest’atto importa la struttura: la struttura dell’auctoritas, dell’incominciamento non dell’iniziazione, dell’aumento non della decrescita; la struttura dell’abundantia, dell’eccedenza non della mancanza ontologica, della fortuna non della predestinazione, della differenza non dell’identità; della superfluentia, del superfluo non del misurato, dell’incalcolabile non del riflusso. L’esperienza è l’atto nel suo pleonasmo.
Auctoritas, abundantia, superfluentia sono demonizzate dalle dittature e dalle democrature che, attraverso le burocrazie fiscali, penali, mediatiche devono sancire le misure e i modi del viaggio di ciascuno, in particolare del viaggio degli scrittori, degli artisti, degli imprenditori, affinché rientri, idealmente, nei canoni dell’accettabilità, vincolati ai canoni dell’uguaglianza e della comunità. Come indicano l’attentato a Salman Rushdie, l’ergastolo a Ilham Tohti, il processo perpetuo a Armando Verdiglione, la cultura e l’arte, la scrittura e l’edizione sono vietate, se non rientrano nel pensiero corrente, nella religione del luogo comune: scatta la punizione per blasfemia.
Eppure, l’atto arbitrario è blasfemo, cioè non è religioso, non si attiene all’immaginazione e alla credenza, al pensiero politicamente corretto. È arbitrario perché non sottostà al dominium e all’imperium occidentali e orientali del pensiero. L’atto non è da pensare, da capire, da narrare: ciascuno dimora nell’atto, pur senza potervisi accomodare, ciascuno ne ignora le antecedenze e le conseguenze, perché l’atto sfugge sia alla determinazione che all’indeterminazione. Vivere in modo sommario, ovvero algebrico: ecco la determinazione; vivere in modo frammentario, ovvero geometrico: ecco l’indeterminazione. Due modi per pensare l’oggetto, il tempo e l’Altro, per negare il narcisismo della vita in cambio dell’assunzione del nulla e della morte.
Determinazione e indeterminazione esigono che l’atto sia sottoposto a intenzionalità o inintenzionalità. L’intenzionalità, secondo Franz Brentano, sarebbe ciò che distingue gli atti psicologici, umani, dai fenomeni fisici: gli atti intenzionali sarebbero diretti a qualcosa, tenderebbero a un oggetto loro inerente. Mentre con Edmund Husserl il “vissuto intenzionale” è alla base della coscienza, e il pensiero è rivolto verso una realtà che lo supera, senza bisogno di un riferimento all’oggetto. Questa dicotomia tra intenzionalità dell’atto del pensiero e inintenzionalità del fatto naturale, su cui John Searle fonderà la distinzione, oggi divenuta luogo comune, tra l’intelligenza umana e l’intelligenza artificiale, manca la costatazione che, parlando, narrando, scrivendo, l’intenzionalità si infrange contro la metafora, sulla via dell’auctoritas, la metonimia, sulla via dell’abundantia, la catacresi, sulla via della superfluentia. Con queste tre strutture della parola, non c’è atto intenzionale, l’atto è arbitrario in quanto inintenzionale: nella sua ricchezza, nel suo pleonasmo, non è né volontario né involontario, né cosciente né incosciente.
L’atto non è intenzionale perché non è un atto linguistico, come vorrebbe Searle, ma è parola in atto, con il suo processo linguistico rivoluzionario, cioè con un’intenzione che non risente della volontà di bene, della coscienza e del soggetto, con una tensione senza sostanzialità e senza mentalità. Questa tensione non gestibile, non orientabile, è tensione sintattica lungo la struttura dell’auctoritas, tensione frastica lungo la struttura dell’abundantia e tensione pragmatica lungo la struttura della superfluentia. Questa tensione non sacrale e non sacrificale è tendenza, è il tendere, il rivolgersi delle cose alla qualità, al valore, non all’oggetto o all’Altro, non al fine o alla fine. “Viene chiamato ‘intenzionale’ il ‘pulsionale’, il ‘rivoluzionario’: le cose procedono in direzione della qualità, si rivolgono alla qualità. Questa è la tensione. Quella che Machiavelli chiama ‘virtù’ e che Leonardo chiama ‘forza’ intellettuale”, scrive Armando Verdiglione.
L’esperienza senza l’intenzionalità è l’esperienza in atto, è la memoria in atto, non la messa in atto della memoria ridotta a ricordo. Nel saggio Ricordare, ripetere e rielaborare Freud scrive, secondo la traduzione proposta nelle Opere edite dalla Boringhieri: “Possiamo dire che l’analizzato non ricorda assolutamente nulla degli elementi che ha dimenticato e rimosso, e che egli piuttosto li mette in atto [corsivi nel testo]. Egli riproduce quegli elementi non sotto forma di ricordi ma sotto forma di azioni” (pag. 355).
Questo agieren, questo acting out, un atto che supplirebbe la memoria, dunque la parola, per Freud risulterebbe un aspetto del transfert e consentirebbe di “evocare un pezzo di vita” (pag. 357) non ricordato. Ma se l’atto potesse divenire una messa in atto, parteciperebbe al canone misterico: sarebbe un atto significante un altro atto, secondo la formula misterica. Nell’actingout si tratterebbe di qualcosa che sarebbe stato e, non venendo ricordato, si ripeterebbe. Ma sorge una questione: un ricordo è ricordo di qualcosa che è stato? O ciò che è proprio del ricordo non è mai stato, e se sembra testimoniare del passato è solo perché sta agganciato a un fantasma, per esempio il fantasma d’origine, che ricerca la causalità, o il fantasma puro, che ricerca l’obiettività? Il fantasma, non il ricordo, partecipa a un’idea di sé, del tempo e dell’Altro, anche se non riesce a supportare una ripetizione di un presunto fatto. L’atto è arbitrario perché non è legato alla commemorazione algebrica e alla rimemorazione geometrica, perché è immemoriale. La memoria è in atto: questa l’esperienza, esperienza di parola. E la parola agisce, è in atto, non passa all’atto: sarebbe sottoposta all’arbitrio dell’idea, per esempio di origine, ma anche di morte, di uguale, di sistema.
L’atto arbitrario non è sottoposto all’arbitrio dell’idea, all’arbitrio del pensiero. È l’atto di parola, non l’atto di pensiero, il pensiero in atto, che Giovanni Gentile considerava l’atto puro, “atto in atto”. Per lui la natura e dio, il passato e l’avvenire, l’errore e la verità e ciascuna altra cosa non possono essere fuori dall’atto di pensiero, atto pensante, atto creatore, atto infinito. Viene fondato così il primato della coscienza e della conoscenza dell’oggetto e della realtà, che esistono solo come oggetto e realtà del “pensiero vivente”. Questo attualismo di Gentile, una forma di idealismo che mette in questione quello di Hegel, diviene nel luogo comune primato del pensiero, primato dell’idea. E ognuno può sottoporsi all’arbitrio dell’idea, arbitrio dell’idea di sé e dell’Altro e del tempo, e ognuno può pensarsi e pensare l’Altro, sospendendo, idealmente, l’atto di parola, sottoponendosi all’atto di pensiero, così può pensarsi, credersi, giustificarsi, dunque punirsi. Cos’è infatti la pena se non sottoporre la realtà, l’io, l’Altro al giogo dell’arbitrio dell’idea, idealmente sospendendo la parola nel suo atto libero? La meditazione dello Yoga Sūtra o del mindfulness, la mistica di Jakob Böhme e di Emanuel Swedenborg sono solo alcuni esempi di queste forme di spiritualità, in occidente e oriente, che dovrebbero consentire la conoscenza e la padronanza dei propri pensieri, cioè la soggettività, contro l’arbitrarietà della parola.
Pesante e penosa è la soggettività. L’atto di parola non consente di partecipare all’idea di pena che la mistica occidentale e quella orientale impongono agli umani: parlando, impossibile pensarsi, conoscersi, credersi, immaginarsi. Impossibile pensare, credere, immaginare la cosa, l’io, l’Altro, l’evento, il divenire e l’avvenire. La cosa, l’io, l’Altro, la vita stessa sono in atto nella parola, non nell’atto di pensiero, non nel cosmo dell’idea che da Platone a Patañjali, da Cartesio a Gentile, fino al transumanesimo e al cosmismo mira a imporre al pianeta il suo ordine mondiale come ordine gnostico e misterico, ordine penale e penitenziario, tra una redentio e una renovatio, tra una radicalizzazione e una purificazione.
Anche il libero arbitrio, in quanto arbitrio dell’idea, in particolare dell’idea di padronanza, è un servo arbitrio, arbitrio della soggettività. Il libero arbitrio soggettivo esclude la libertà dell’atto di parola, che è la sua arbitrarietà, che vanifica il soggetto del pensiero. “Io penso questo”, “io voglio questo” non attuano la libertà o l’arbitrarietà, le negano sottoponendole al dominium e all’imperium dell’idea propria, chiamata anche autodeterminazione, che in questo senso è dominium e imperium dell’idea dell’Altro, ovvero dell’idea senza l’Altro. Il libero arbitrio è il consumo dell’Altro in sé: per questo, il colmo dell’autodeterminazione, dell’arbitrio della volontà, è l’arbitrium indifferentiae, l’indifferenza, per esempio, in materia di umanità, o di arte e di cultura, che ne comporta, idealmente, la cancellazione. Infatti, tolto l’Altro, l’indifferenza tutto parifica e eguaglia, in modo sommario e tagliando grosso, in assenza di ascolto.
La sordità è peculiare all’arbitrio della volontà perché esso è anche arbitrio del punto di vista, dunque della visione senza ascolto. Il punto di vista è il comune pregiudizio, è la propria idea che si fa comune: il punto di vista è la base della condivisione e il trionfo del relativismo. Per l’arbitrarietà della volontà che esprime, il punto di vista costituisce la fusione tra l’arbitrio personale e l’arbitrio sociale, dunque è l’arma prediletta della dittatura giudiziaria.
Ma il punto di vista non garantisce la riuscita dell’atto: la svista, intoglibile anche in una visione del mondo, lo vanifica. Nonostante le formule e i cerimoniali, infatti, lo stesso punto di vista, devastante per le famiglie, per le imprese, per la vita civile, non può che dirsi, con lessemi e elementi linguistici, rilasciando asterischi, enunciati e enunciazioni. Impossibile eludere il processo linguistico narrativo se, anziché lo scontro tra due arbìtri della volontà – così potremmo definire “la lingua dei litiganti” di cui parla Leonardo da Vinci – interviene un dispositivo di ascolto. L’ascolto indica come l’arbitrarietà è virtù del principio della parola, non dei soggetti del dialogo e della logica: i principi del dialogo e della logica, in nome del canone dell’uguale, base del principio d’identità, mirano a spazzare via dalla parola la contraddizione e l’adiacenza, spingendoci a eliminare quel che ci contraddice e quel che non soggiace alla nostra volontà.
In quanto virtù del principio della parola, l’arbitrarietà ne investe ciascun elemento: arbitrario è l’atto, arbitraria la lingua, arbitraria la domanda, arbitrario l’itinerario, arbitraria l’esperienza, arbitraria l’impresa, arbitraria la vita. Come indicano gli interventi pubblicati in questo numero, l’impresa è arbitraria perché non si assoggetta alla volontà di chi, amministratore e dipendente, vi lavora; l’impresa è arbitraria perché le norme, le regole e i motivi sono l’esca per il gioco e il lavoro, non li predeterminano; l’impresa è arbitraria perché il suo dispositivo è indipendente dal principio della paura e del rispetto, si attiene all’occorrenza, con umiltà, indulgenza, tolleranza, in direzione del valore. Questa l’arbitrarietà dell’impresa, l’arbitrarietà della nostra impresa.