L’IMPRESA È IL BALUARDO DELLA CIVILTÀ

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presidente di S.E.F.A. Holding Group Srl, Sala Bolognese (BO)

Mi congratulo con Paolo Moscatti, perché non è comune fra gli imprenditori la capacità di testimoniare e di trasmettere al pubblico la storia della propria vita, favorendo l’emulazione.

La mia famiglia ambiva al posto fisso all’INPS o all’INAIL per il mio avvenire, oppure mi suggeriva di partecipare al concorso per lavorare nelle Ferrovie dello Stato. Invece, io sono stato quasi la pecora nera rispetto a questo ideale familiare, dal momento che ho deciso d’intraprendere la via dell’impresa. Arrivando a Bologna nel 1955, da Montefeltro – e da San Leo, in particolare –, ho avuto la grande fortuna d’incontrare un professore che mi ha trasmesso l’interesse per la metallurgia e per il disegno, mentre frequentavo l’Istituto Aldini Valeriani, che in quegli anni era una fucina di talenti nell’arte del fare. Da questo incontro ho tratto il meglio della mia vita.

Io non vengo da una famiglia di imprenditori e questa era stata una bella questione per il mio professore, Romeo Bentivogli – ingegnere e all’epoca socio della Ober di Cadriano –, il quale si meravigliava di avere avuto tra i suoi allievi un imprenditore che non provenisse da una famiglia di imprenditori, e quindi ogni volta che m’incontrava alle fiere chiedeva sbalordito: “Ma tu hai un’impresa?”.

Io intendo la vita come una grande rotatoria: mentre la percorriamo, dobbiamo decidere di volta in volta, passo dopo passo, qual è la strada giusta in cui svoltare. E avviene lo stesso quotidianamente anche nell’impresa.

La mia è stata una sfida che ha richiesto grande tenacia, perché ho intrapreso una strada, scegliendo di lavorare nella siderurgia, che negli anni settanta – ho incominciato esattamente il 1° febbraio 1970 – era rispettata ed evocava ammirazione. Chi lavorava nel settore, anche come impiegato, era stimato per questo. Io ho avuto anche la fortuna di aver incominciato a lavorare alla Mazzoni Acciai, dove ho acquisito la formazione di venditore. Poi, dopo alcuni anni, il settore ha registrato un aumento anche qualitativo degli acciai e quindi nel 1977 mi sono subito inserito nel settore degli acciai da stampi. L’evoluzione nella siderurgia era incalzante e quell’anno sono entrato in un’azienda svedese, la Uddeholm, nota già allora per la produzione dei migliori acciai del mondo. Questi acciai mi piacevano moltissimo, perché il loro impiego consentiva di costruire qualcosa di duraturo per la comunità. Lavorare in quest’ambito era per me già il modo per contribuire a questa costruzione. Grazie a questi acciai, per esempio, noi garantimmo le migliori forniture per realizzare i primi attacchi automatici degli scii, in particolare per tranciare i particolari di questi attacchi, che stava producendo la Curti Costruzioni Meccaniche.

Fra i nostri primi clienti abbiamo avuto un’azienda fantastica di Bologna, la Cevolani, diretta dal suo fondatore Luigi Pazzaglia, che era anche proprietario di CIAS Acciai. La sua impresa, la Cevolani, era stata la scuola in cui è nata la macchina automatica per dare forma ai contenitori metallici. Se oggi possiamo dotarci di provviste come il tonno e la carne in scatola a lunga conservazione, dobbiamo ringraziare la Cevolani, che, subito dopo la guerra, nel 1945, è stata l’azienda che ha prodotto le prime macchine per confezionare gli alimenti e per il packaging del lucido da scarpe con il caratteristico marchio Ebano. Io gli fornivo gli acciai svedesi perché lui ricercava ostinatamente il migliore acciaio che offriva il mercato.

Quindi, la mia bussola mi ha sempre guidato in direzione della qualità, spingendomi costantemente a intraprendere sfide e a mettermi in discussione. Nel 1979, poi, non mi ero ancora sposato e mio padre continuava a insistere, chiedendomi preoccupato: “Perché fai questo mestiere? Non sei mai a casa e fai tanti chilometri”. Ma ho avuto anche una mamma che mi ha sempre incoraggiato, esortandomi ad andare avanti per la mia strada. E dopo un anno, partendo tutti i lunedì e tornando a casa il venerdì notte, avevo percorso in lungo e in largo per l’Italia 90 mila chilometri. In alcune occasioni, papà mi chiedeva perché cambiassi auto ogni anno e mezzo e, il giorno in cui vide fuori casa la mia nuova Alfetta, chiese di nuovo preoccupato: “Ma non farai mica come Giuffré?!”. Giovanni Battista Giuffré era stato il tesoriere della Curia, ma divenne noto alle cronache nazionali perché non restituì mai i soldi raccolti da migliaia di piccoli risparmiatori, perché li aveva persi al gioco. La mia ricerca si è sempre attenuta alla bussola e non ha mai smarrito la direzione. L’imprenditore deve essere attento a valutare il rischio, ma ha anche il compito quotidiano di aprirsi al confronto e valutare varie proposte. Sono stato artefice di acquisizioni, incorporazioni e chiusure di società esistenti, e di inaugurazioni di società nuove. Oggi, la nostra azienda lavora con Uddeholm, uno dei brand del Gruppo voestalpine, che ci ha scelto come suo distributore esclusivo per alcune regioni del Centro Nord Italia. Questo è per noi motivo di grande vanto, perché non è così facile acquisire la fiducia di uno fra i più importanti gruppi siderurgici del mondo. E parlo di un gruppo industriale che produce acciai di qualità, acciai “buoni”, nel senso che sono quelli utilizzati per assicurare il benessere alle città e non per bombardarle. In questo contesto, la mia azienda, che ha circa settanta dipendenti, si è trasformata negli anni, rispondendo alle richieste delle grandi multinazionali al punto che, per offrire materiali sempre più performanti e asettici, per esempio nel settore alimentare, abbiamo avviato un’altra azienda specializzata nella fornitura di titanio, TIG Srl. Ma tutto questo è avvenuto anche grazie ai dispositivi di parola avviati con altri imprenditori e amici, procedendo dall’apertura, dalla relazione, senza cui non c’è avvenire e si smarrisce la direzione. Se, oltre al rischio e alle qualità personali dei propri dipendenti, l’imprenditore non avesse la sua bussola e la sua meta, finirebbe per non concludere nulla nel lungo periodo.

Chi ci conosce sa bene che la nostra tensione è rivolta a favorire sempre di più i dispositivi di parola per crescere, come impresa e come uomini. Io intendo l’impresa come il fulcro della società, attorno a cui nascono cultura e storia e si produce anche democrazia, perché lavorando si produce la ricchezza che è poi trasmessa a tutta la comunità. Noi siamo stati fautori di questa logica e siamo divenuti motivo di emulazione. Dalla nostra azienda sono usciti sedici collaboratori che hanno acquisito la nostra cultura siderurgica e qualcuno è diventato anche nostro concorrente. Ma ne siamo orgogliosi, perché questo indica che abbiamo dato loro un contributo in termini di cultura dell’impresa da cui poi hanno tratto vantaggio. E questo prova che ciascuno può divenire imprenditore, che l’impresa non è una strada preclusa. Ma occorre acquisire un’educazione e una cultura, che non sono necessariamente universitarie. È quindi essenziale avere grande disponibilità all’incontro, perché l’impresa può essere intesa anche come un figlio: non va bistrattata ma coltivata, e in questo caso offrirà anche delle soddisfazioni. Io ho tre figli, due dei quali lavorano nelle aziende del Gruppo. Non sono cresciuti nella logica delle imposizioni, perché gli ho assegnato compiti ben precisi di cui loro hanno la responsabilità. Quindi non bisogna seguire necessariamente la strada del papà, ma tenere conto del suo consiglio ed emulare la sua capacità di discernere. Per esempio è accaduto questo con mia figlia, Francesca, che a trentaquattro anni gestisce un’azienda difficile, specializzata nella distribuzione di titanio, muovendo diciannove milioni di fatturato e con clienti delle aree europea e americana, del Sud Est Asiatico, di Israele e della Turchia.

In questo momento così difficile per le imprese del nostro paese dico: non perdiamo la bussola proprio ora e non smettiamo di dare testimonianze costruttive! L’impresa sostiene la città, provoca la comunità all’emulazione e alla modernità. In questo momento forse c’è chi vorrebbe stare più comodo ed è attanagliato dalla paura. Oggi non è il momento di avere paura, ma di affrontare i problemi attuali, per noi e per i nostri figli, in una prospettiva che purtroppo è orientata sempre più al breve periodo, come per esempio avviene per il difficile reperimento di materie prime ed energia, e come sta accadendo nella ricerca sempre più problematica di nuovi collaboratori da assumere. L’impresa è il baluardo della civiltà e, quindi, bisogna darle il giusto valore. Anche se i media italiani e la pseudo cultura della società non le danno fiducia e la ritengono spesso un fatto secondario o qualcosa da sfruttare e basta. Ma l’impresa deve invece essere compresa e capita dalla società civile. Il paese deve capire qual è il suo bene più importante, perché l’impresa fa e costruisce l’avvenire del paese e, quindi, anche dei suoi cittadini.