LA MIA BUSSOLA. L’AMICIZIA, LA FAMIGLIA, L’IMPRESA

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presidente di TEC Eurolab, Campogalliano (MO), di ALPI e di EUROLAB

Prima di scrivere La mia bussola. L’amicizia, la famiglia, l’impresa (Spirali), temevo che la storia di un piccolo imprenditore non interessasse a nessuno e che il libro potesse finire nella miriade di pubblicazioni che occupano gli scaffali delle librerie per qualche settimana e poi vengono dimenticate o peggio portate al macero. Per questo, sollecitato dalle domande di Anna Spadafora – che mi ha assicurato che la casa editrice Spirali pubblica soltanto libri con uno spiccato interesse culturale –, mi sono impegnato a evitare di dare spazio a qualsiasi inutile intento autocelebrativo o dimostrativo, che si annida nella presunzione di sapere cosa fare e come fare. E credo di avere ottenuto qualche risultato, almeno a giudicare dagli apprezzamenti sinceri che mi arrivano dai lettori, oltre che dagli illustri imprenditori (come Alessandro Curti e Gian Luigi Zaina) intervenuti come relatori ai dibattiti organizzati per discutere i temi affrontanti nel libro. Molti lo accolgono come uno strumento per riflettere intorno al proprio viaggio, nell’impresa o nella vita, attraverso il racconto autentico delle vicende di un uomo che non nasconde gli errori, le perdite e le sconfitte e, anzi, proprio perché non nasconde nulla, nei momenti più critici, trova quell’appiglio cui aggrapparsi per rilanciare.

In quei momenti non hai tempo per costruire, nella tempesta non si costruisce, si agisce, sia quando le onde sono talmente alte che rischiano di travolgere la nave sia quando si tratta di un piccolo temporale. Sono momenti in cui si vaglia ciò che hai costruito prima: la squadra, costituita dagli uomini e dalle donne che condividono il progetto e il programma dell’impresa, ma soprattutto dalla cultura che deve essere alla base di ciascuna azienda che punti al valore assoluto. Quella che racconto nel libro è una storia condivisa, dove nulla sarebbe stato uguale, nulla sarebbe accaduto, senza i collaboratori, senza i miei soci Alberto e Anna e, in particolare, senza la costante presenza e l’impegno personale di mia moglie Loretta, tanto nell’impresa quanto nella famiglia.

Tuttavia, niente e nessuno può togliere la solitudine dell’imprenditore nel prendere decisioni, per quanto chi gli sta accanto possa aiutarlo nella valutazione e nell’analisi dei rischi e delle opportunità, la decisione spetta soltanto a lui. Nel momento delle decisioni importanti, quelle che comportano un cambiamento di rotta, spesso l’imprenditore è solo. Fortunatamente i miei soci mi hanno sempre aiutato nelle decisioni e, una volta imboccata una strada, non importava se la decisione era più vicina al mio pensiero o al loro, diventava la decisione e la si difendeva, tranne quando ci si accorgeva che era sbagliata e allora si tornava indietro. Quello che ho imparato – che poi non ho imparato niente, perché ciascuna volta è differente dalle precedenti – è frutto delle esperienze in cui mi sono trovato nel corso della vita, perché non c’è una scuola che t’insegni a decidere.

A volte, purtroppo, lo stesso imprenditore percepisce la solitudine come isolamento, come carico di responsabilità che deve portare esclusivamente sulle proprie spalle, com’è avvenuto durante la crisi del 2009, quando per diverse settimane non c’era telegiornale che non riportasse il drammatico gesto di qualche imprenditore che non ce la faceva più. Credo che la stragrande maggioranza degli imprenditori – nonostante il pregiudizio li apostrofi ancora troppo spesso come “prenditori” – abbia un altissimo senso di responsabilità verso i collaboratori e le loro famiglie, persone con cui c’è stima, solidarietà e amicizia, al punto che ci vai anche a pranzo o a cena insieme. Allora, come può accettare che, improvvisamente, non possa più neanche pagare loro lo stipendio? Quanti sono stati gli imprenditori che in quel periodo hanno tagliato i propri compensi, pur di evitare la cassa integrazione per i collaboratori? Hanno fatto di tutto per tenere in piedi l’azienda, ma la crisi era così profonda che non ci sono riusciti. E qui subentra la disperazione di non avere più carte da giocare. Invece, si tratta soprattutto di una grande malattia del nostro sistema industriale, che non è fatto solo di imprese, ma anche di banche e istituzioni. Nel libro sono abbastanza critico nei confronti delle banche e dello stato: proprio nei momenti in cui un’azienda – dopo che per decine di anni ha prodotto reddito, distribuito stipendi, pagato tasse – affronta un momento che non è nulla al confronto di ciò che è stato o che potrà essere, non trova nessuno che le dia una mano, sono spariti tutti. Uno slogan che ricorre in ambito sportivo recita: “È impossibile vincere da soli, si vince sempre tutti insieme”. Ma se nella vittoria è facile trovare amici, quanta solitudine c’è nella sconfitta! E va raccontata la sconfitta, perché raccontare le cose è un po’ come trovarle in una nuova veste: leggendo di qualcuno che ha perso tutto, anche la speranza, però poi ne esce, e ne esce più forte di prima, pensi che allora anche tu possa farcela. E qui sta il valore del raccontare le sconfitte.

Spesso ci si chiede se le nostre aziende siano troppo piccole per affrontare il mare magnum della globalizzazione. Io credo che la dimensione dell’azienda abbia a che fare con la struttura del territorio. Se la nostra azienda fosse situata negli Stati Uniti sarebbe troppo piccola, avrebbe bisogno di crescere. In Emilia Romagna, invece, c’è una densità d’industrie talmente alta che chi è troppo grande rischia anche di perdere la specificità del suo intervento. Le multinazionali del nostro settore in Italia fatturano 80 milioni di euro, nel mondo qualche miliardo, ma non vengono a prenderci i nostri clienti rispetto ai servizi che offriamo noi, perché loro non possono servirli con altrettante elasticità e prontezza: i nostri clienti hanno bisogno di risposte a volte in pochi giorni, altre volte in poche ore, se avessimo una struttura elefantiaca non potremmo rispondere in modo così immediato. Certo, abbiamo bisogno di collaboratori che abbiano lo stesso approccio al mercato e per fortuna ci siamo messi in casa persone con un alto livello di specializzazione e quando capita la tempesta perfetta te le trovi al fianco. Però, oggi sta avanzando un’incognita importante, quella della transizione all’elettrico, che richiede un rapido sviluppo di nuove competenze, non soltanto nella nostra azienda, che ha sempre lavorato nella meccanica e nella chimica, ma in tutta la filiera della mobilità. Allora, siccome non possiamo creare le nuove competenze da zero, dovremo prenderle dove esistono già. E qui le strade sono due: o quella dei grandi gruppi, che acquisiscono aziende, oppure potremmo percorrere una via emiliana, una via della Motor Valley, per rispondere a questa esigenza strutturando alleanze. Noi stiamo proponendo ad aziende che fanno più o meno il nostro stesso mestiere, ma in settori complementari, collaborazioni per nuovi servizi, che apportino tecnologia nuova anche al nostro interno. Io credo che oggi la parola d’ordine per il nostro territorio sia coopetizione, è una parola stranissima, anche brutta da dirsi, ma sta a metà tra la collaborazione e la competizione, e indica che si può collaborare con i competitori, si può collaborare a un progetto o in una determinata nicchia di mercato, pur rimanendo concorrenti sul resto.

La transizione energetica sarà molto ardua, anche se sul nostro territorio c’è già qualche imprenditore che se ne sta occupando e credo che le cose cambieranno velocemente. Però non possiamo abbandonare la vecchia filiera prima ancora che sia nata la nuova, quindi dobbiamo transitare, noi imprenditori siamo bravi a fare questo.

Uno dei compiti più importanti che abbiamo come imprenditori e come imprese è quello di favorire l’incontro, lo scambio e la socialità all’interno e all’esterno dell’impresa. All’interno gestiamo la nostra impresa con l’ascolto, la partecipazione, il coinvolgimento, e promuoviamo la coesione sociale. Io ho un’immagine dei nostri collaboratori come le tessere di un puzzle multidimensionale: arrivano al mattino e compongono il puzzle dell’organizzazione dell’impresa, vivendo le ore di lavoro con la cultura e i valori che trasmettiamo nell’azienda. Quando escono vanno a comporre altri puzzle – la famiglia, l’associazione, la squadra sportiva, ecc. –, ma non abbandonano l’approccio, la cultura che hanno respirato nell’impresa. D’altra parte, basti pensare che in un territorio dove ci sono tante imprese c’è maggiore coesione sociale rispetto a un territorio in cui magari c’è un’unica impresa e il collaboratore, se perde il lavoro, è veramente in brutte condizioni. Quindi, dobbiamo essere grati al nostro territorio. Sergio Dalla Val, nel suo intervento al dibattito di Bologna, parlava di restituzione. È un grande compito che abbiamo noi imprenditori: riconoscere il valore del nostro territorio, delle nostre persone, e con la nostra attività restituire qualcosa alla civiltà. Sono tanti gli imprenditori con storie di vita, personale e d’impresa, ricche di valori, di esperienze, di contributi; non posso che invitarli allo sforzo della scrittura, all’utilità del racconto, per trasmettere il valore dell’impresa non solo per i suoi prodotti o servizi, ma anche per il fondamentale apporto allo sviluppo e alla coesione sociale. Vivendo e raccontando l’impresa, e l’imprenditore, possiamo trasmetterne cultura e valori fino a superare quel sentimento antiindustriale che ancora troppo spesso emerge in alcuni contesti politici e sociali.