GLI ANZIANI: MALATI PER FORZA?
Il recente progressivo invecchiamento della popolazione ci distingue da quello che è sempre avvenuto nella biologia del mondo animale: in natura gli animali giovani sono più numerosi dei vecchi, l’animale malato diventa preda per gli altri. Noi invece stiamo andando contro tale principio, siamo le prime generazioni che godono di questo miracolo. Mi piace dire che “nascono più vecchi che bambini”, nel senso che la bassis[sima natalità fa da contraltare (preoccupante) al numero di persone che invecchiano. Già nel 2018 i dati ISTAT ci avevano comunicato che la popolazione delle persone ultrasessantenni aveva superato quella al di sotto dei trent’anni. I dati nazionali del 2020 ci parlano di 173 anziani ogni 100 giovani, ma con realtà variegate nella nazione, fino a paesini i cui residenti sono al 100% anziani. Gli ultracentenari sono passati da poco più di 50 dell’inizio del secolo scorso a circa 16.000 nel 2011 e a 20.000 nel 2015. Oggi sono ancora di più, in grande maggioranza, lo si noti, (circa l’80%) donne.
L’essere umano non fu creato per invecchiare, questo fenomeno è legato ai numerosi cambiamenti degli ultimi 60-80 anni: dalle fognature, all’acqua potabile, ai vaccini e alle notevoli risorse diagnostiche, terapeutiche, persino alle ferie. Ovviamente, si é creata una “coda” di soggetti fragili e con malattie croniche e complessità, con cui noi medici ci confrontiamo ancora in maniera parziale trattandosi di un fenomeno “nuovo”.
La fragilità è di casa, soprattutto nelle donne. Da un’indagine recente del British Medical Journal, una donna su 4 e un uomo su 6 andranno incontro a qualche forma di disabilità entro il 2047. I dati attuali ci dicono, insomma, che i quasi cinque anni in più di vita delle donne vengono ripagati abbondantemente da una prolungata fragilità: gli anni di vita sana sono ridotti rispetto a quelli dell’uomo. L’anziano fragile è rappresentato, dunque, più spesso da una donna che vive sul filo del rasoio, in bilico tra la propria indipendenza e il rischio di una tragica sequenza di eventi patologici, disabilità e complicanze che spesso evolvono a cascata o in circoli viziosi irreversibili. Tale complessità è spesso creata da farmaci inappropriati e anche numerose mancate precauzioni tra cui l’eliminazione dei tappeti dal pavimento, dei mobili fonte di ostacoli e da diversi fattori sociali, tra cui la solitudine. Quella che chiamo “solitudine amara”, per distinguerla dalla beata solitudo, rappresenta certamente un fattore di rischio modificabile per demenza e fragilità. Alcuni dati proposti dal Karolinska Institute di Stoccolma, in cui lavorano anche due italiane, Laura Fratiglioni e Debora Rizzuto, ci dicono che le donne che vivono sole sopravvivono qualche mese in meno rispetto a quelle che vivono in compagnia, e questo succede ancor più negli uomini.
George Alexopoulos, grande geriatra, insegna che la complessità è la regola quando si parla di salute negli anziani. Secondo un’indagine di qualche anno fa del Tribunale dei diritti del malato, l’86% dei medici non comprende la complessità e tende sempre alla semplificazione. Inoltre, ogni anno, oltre tre milioni di persone arrivano in ospedale perché una malattia cronica si è riacutizzata a causa di una gestione clinica troppo frammentaria, specialistica.
Il geriatra, il neurologo, l’internista, il cardiologo e lo pneumologo in qualche modo collaborano fra di loro tentando di avere una visione generale, olistica, mentre l’ortopedico, l’otorino, l’oculista (sono alcuni esempi) badano spesso unicamente al loro frammento di competenza. Il ruolo del neurologo, comunque, resta ancora vago “tra la gente”. A volte comincio lezioni o conferenze chiedendo: “Se vedete doppio, da quale specialista andate?”. Quasi tutti mi rispondono: “Dall’oculista!” malgrado il più delle volte si può trattare della paresi di un muscolo di un occhio che rappresenta, quindi, un problema di competenza neurologica. Come avviene nella miastenia gravis, malattia di cui è morto anche Aristotele Onassis, di certo non diagnosticabile attraverso una RM cerebrale!
Lo psicogeriatra Marco Trabucchi si chiede se la cronicità sia un successo della medicina e a questa domanda si risponde con una certezza: “La classe medica è impreparata ad affrontare lo scenario determinato dall’invecchiamento della popolazione e dalle malattie croniche”.
Il mio libro Malati per forza è del 2014 e, purtroppo, appare ancora attuale a causa della persistenza dell’uso inappropriato dei farmaci, e proprio in chi ne fa un uso maggiore, gli anziani. Un mio amico geriatra mi ha inviato lo schema terapeutico di un’anziana che prevedeva nove farmaci a colazione, tre a pranzo, uno alle 14, sette a cena e uno prima di coricarsi. Nel rapporto OSMED del 2011, dati confermati di recente, l’aumento dell’età si accompagna all’aumento di farmaci, con il 49% dei soggetti dai 65 anni in su che assume dai cinque ai nove farmaci al giorno e l’11,3% oltre dieci farmaci. Il gruppo di età compresa tra i 75 e gli 84 anni è risultato esposto al più elevato carico farmacologico, con il 55% dei soggetti trattati con un numero di farmaci al giorno che da cinque a nove e il 14% con dieci o anche più. Insomma, più si invecchia e più farmaci si assumono.
Il Congresso della SIGG (geriatri) del 2016 ha segnalato che più del 40% degli accessi in Pronto Soccorso dipende da reazioni avverse ai farmaci prescritti a pazienti over 65, e magari non riviste o modificate in base alle mutate, tipicamente variabili, esigenze di salute del paziente anziano. Ancora: circa un terzo dei nove milioni di ricoveri in Italia sarebbe causato da effetti collaterali causati da farmaci assunti da ultra sessantacinquenni, evitabili proprio rimodulando man mano le terapie. Con un ritocco delle cure si potrebbero evitare circa tre milioni di ricoveri di over 65. Nell’aggiornamento del 2015 dei Beers criteria, la bibbia dalla Società Americana di Geriatria, emerge che il tasso di utilizzo evitabile di farmaci inappropriati negli adulti più anziani varia dal 28%, in contesti ambulatoriali, al 42%, in strutture di assistenza a lungo termine.
Infine, un dato specifico legato alla maggior fragilità al femminile e che serve a precisare il ruolo della medicina di genere: rispetto ai maschi, le donne consumano più farmaci, possono rispondere in modo diverso, risultano più suscettibili agli eventi avversi che i farmaci possono provocare.
La medicina di genere ci indica come (e quando) una malattia può manifestarsi, essere diagnosticata, curata e affrontata diversamente in un uomo e in una donna. Ci sono malattie che hanno una diversa incidenza negli uomini rispetto alle donne; esistono fattori di rischio (ipertensione arteriosa, diabete, ecc.) che pesano diversamente a seconda del genere; le malattie che coinvolgono i due generi nella donna possono presentarsi con sintomi diversi, ottenere una diversa efficacia nel trattamento, nell’evoluzione e nella prognosi. Dell’infarto cardiaco si diceva che muoiano solo gli uomini, realtà non veritiera in quanto colpisce anche le donne, ma l’aspetto più inquietante e non conosciuto da parecchi medici è determinato dai sintomi con cui si presenta abbastanza spesso nella donna, assolutamente atipici e fuorvianti!
Alcune considerazioni sulle ricerche farmacologiche: fino a pochi decenni fa le case farmaceutiche erano restie ad arruolare le donne nella sperimentazione perché i maschi presentano meno problemi (non hanno il ciclo mestruale e non vanno incontro alla gravidanza, condizione che potrebbe creare la nascita di bambini malformati e rivalse legali). Così, a valle, accade che le donne anziane usino farmaci sperimentati sul ventenne maschio. Sarà la stessa cosa? Non sempre. Già nel 1932 qualche anima buona aveva osservato che nelle femmine di ratto usate nelle sperimentazioni c’era bisogno del 50% in meno di barbiturico come anestetico. Questa ed altre evidenze emergenti sulla diversità uomo\ donna sono rimaste lettera morta, finché nel 1998 l’OMS, presa visione dei primi dati, nel 2002 ha decretato la necessità di cambiamenti poiché nella medicina di genere ci sono verità di cui tener conto. E pensare che il grande neurologo Jean-Martin Charcot affermava: “Perché sprecare tempo a sperimentare farmaci sulle donne quando ne abbiamo già visto gli effetti sugli uomini?”.
Le sperimentazioni sui farmaci, quindi, sono sempre state fatte in grande prevalenza se non esclusivamente sui maschi: si è cominciato con i reduci di guerra, maschi e giovani. Ma anche i maschi hanno pagato con tutta evidenza un prezzo: tra il 1946 e il 1948 in Guatemala 700 individui (soldati, detenuti, “malati mentali”) sono stati infettati dall’agente della sifilide tramite inconsapevoli prostitute per verificare l’efficacia della penicillina. È stato loro chiesto scusa nel 2010. Ancora peggio quanto è accaduto a Tuskegee, in Alabama: tra il 1932 e il 1972, 400 raccoglitori di cotone, malati di sifilide, sono stati lasciati senza cure allo scopo di studiare l’evoluzione “naturale” della malattia. Nel 1997 l’allora presidente Bill Clinton chiese scusa. Sappiamo come si fanno le ricerche: a un malato si dà un farmaco e all’altro il placebo, una sostanza inerte. Nel 2012, alcuni giornalisti del “Tagesspiegel” hanno scoperto che negli anni ottanta, cinquanta tra le più importanti industrie farmaceutiche dettero (a pagamento) in appalto a ospedali dell’allora DDR più di 150 nuovi farmaci da testare. I pazienti coinvolti, qualche migliaio, non erano stati informati. In alcuni casi documentati, persone con infarto del miocardio furono assegnate, sempre a loro insaputa, a terapia placebo, con conseguenza immaginabili. Questo, eticamente, è sbagliato.
Arriviamo al paradosso: gli estrogeni sono stati sperimentati sui maschi con effetti seri in termini di tumori e femminilizzazione. Hanno sperimentato sugli animali, ma non in gravidanza, il Talidomide con le conseguenze che conosciamo in tutto il mondo, USA esclusi per lungimiranza di una scienziata addetta ai lavori. Nel 2012 sono arrivate le scuse ufficiali.
Nel Multiple Risk Factor Intervention Trial, condotto fra il 1973 e il 1982, per valutare la correlazione tra pressione arteriosa, fumo, colesterolo e malattie coronariche, non fu coinvolta alcuna donna a fronte di 12.866 uomini. Nel Longitudinal Study sull’invecchiamento del National Institute of Aging di Baltimora (1958-1975), le donne erano state escluse, nonostante costituissero più di due terzi della popolazione con più di 65 anni. Ancora peggio negli studi nei quali abbiamo capito che l’onesta aspirina, che costa anche poco, è un ottimo antiaggregante piastrinico. Tra gli anni settanta e ottanta la Food and Drug Administration ha escluso le donne dagli studi clinici tra cui una sperimentazione sugli effetti (Physicians Health Study) dell’aspirina nella prevenzione delle malattie cardiovascolari in cui, appunto, furono arruolati 22.071 uomini e nessuna donna (1989, New England J. Med. 321: 129-135). Alcuni studi recenti hanno messo in dubbio che l’aspirina “funzioni” allo stesso modo in uomini e donne! L’aspirina, altra considerazione, si porta dietro tante volte una categoria di protettivi gastrici, gli IPP, che possono alterare l’assorbimento di calcio e magnesio. Si pensa che l’osteoporosi sia un problema specifico delle donne, mentre ne soffre quasi il 20% degli uomini. La riduzione di statura nella donna in tarda età è superiore rispetto all’uomo e, se avviene velocemente, accresce il rischio di cadute e di fratture.
La donna, giungo alla conclusione, è protetta finché c’è l’ombrello degli estrogeni, ma raggiunto il climaterio, a ombrello chiuso, deve fare più attenzione alla sua salute e seguire le sane norme di prevenzione, cominciando – come tutti, a dire il vero – il più presto possibile.