UN’OCCASIONE PER LA CRESCITA INTERNAZIONALE DELLE FILIERE INTEGRATE
L’anno scorso le è stato conferito il titolo di Cavaliere della Repubblica e in dicembre lei è stato eletto vice presidente nazionale della Piccola Industria di Confindustria, con delega all’internazionalizzazione. Una bella occasione per fare ipotesi di direzione e offrire un orientamento alle PMI sugli scenari futuri dell’economia mondiale…
Una bella occasione per un’analisi geopolitica, che è essenziale per elaborare strategie e programmare investimenti futuri. Anche la più piccola azienda oggi non può fare ipotesi di sviluppo del proprio business senza tenere conto delle traiettorie di ciascun paese appartenente all’area di mercato di suo interesse. Cercare di capire dove stanno andando l’India, la Cina, l’Europa o gli Stati Uniti consente di fare ipotesi di sviluppo in una dimensione multiculturale e di anticipare le tendenze, anziché subirle. Certo, nessuno ha la sfera di cristallo, quindi può accadere che le azioni progettate non diano i risultati attesi, tuttavia, la progettazione è sempre un’occasione per costruire, anziché attendere il vento favorevole e finire per essere impreparati sia nella buona sia nella cattiva sorte.
Porsi obiettivi, fare scommesse, in una realtà complessa come quella delle nostre filiere produttive che si rivolgono a un mercato internazionale, richiede un calcolo e una flessibilità inimmaginabili soltanto qualche anno fa, quando i terzisti – per esempio, nel settore tessile abbigliamento – erano meri esecutori di una fase specifica della produzione e non avevano bisogno di chiedersi se un filato fosse più o meno adatto per rispondere alle mutate esigenze di gusto nella società; questo era un compito che spettava all’industria che commissionava loro il lavoro. Oggi i grandi brand sono impegnati nelle sfide della vendita digitale che si combina con quella fisica, per cui si va sempre più verso la vendita “evento”, anziché rimanere ancorati alla vendita tradizionale. E il dispositivo con il subfornitore passa in secondo piano, mentre diventa sempre più prioritario presidiare negozi e tante attività che si aprono e si chiudono, in nuovi aeroporti e in nuove città, in Cina e in altri paesi emergenti, ma anche in quartieri di una stessa città, come Londra, per esempio, dove un quartiere cambia faccia da un anno all’altro. Quindi, il lavoro dei grandi brand non si limita più a ideare, produrre e vendere le nuove collezioni, ma richiede la capacità di vendere, comprare o affittare muri, assumere personale, negoziare, fare contratti, tutto in maniera molto veloce.
Ecco perché il fornitore deve ingrandirsi per risolvere tanti problemi complessi, di cui il suo cliente non può occuparsi, perché magari è impegnato nell’apertura di una catena di negozi in Oriente. Ma, per affrontare problemi più complessi, il fornitore deve compiere un salto di paradigma, per esempio, introducendo competenze manageriali per poter prendere decisioni indipendenti e assumendo specialisti digitali, specialisti della logistica, del marketing e dei materiali per aumentare il livello culturale dell’organizzazione, in modo da essere in grado di dare risposte rapide e innovative.
In questo senso è essenziale il lavoro di brainworking che lei svolge nella filiera integrata che il vostro maglificio, Della Rovere Srl, ha costituito con gli artigiani suoi fornitori…
Infatti, sarebbe impensabile mantenere il modello di piccola azienda artigiana tanto caro alla liturgia nazionale. Noi nel 2022 cresceremo del 50 per cento e, con questo risultato, abbiamo saturato le capacità imprenditoriali costruite dal 2009 a oggi. Adesso si tratta di progettare la prossima crescita, che richiederà una serie di azioni che avranno una ricaduta positiva sull’intera filiera. Per questo, nelle ultime settimane, ho incontrato ciascuno dei venti artigiani che lavorano con noi per analizzare insieme le necessità pragmatiche da esaudire in vista della crescita futura. Inoltre, ho incominciato a esplorare anche realtà artigianali che non lavorano ancora con noi, ma potrebbero farlo presto: per esempio, ho incontrato un imprenditore che produce in un capannone che sembra di vent’anni fa, però ha un figlio giovane, con tutte le competenze per far crescere l’azienda, e questo è uno dei casi interessanti in cui bisogna seminare, attraverso corsi di formazione, ampliamento degli stabilimenti, ammodernamento degli impianti, digitalizzazione delle macchine, per garantire il collegamento con i nostri reparti, e tutto ciò che occorre per reggere il nostro prossimo salto di crescita “quantica”, che ci sarà sicuramente, perché i nostri sono grandi clienti, con cui abbiamo rapporti consolidati in tanti anni e spesso siamo cresciuti insieme.
È ciò che ho ribadito incontrando ciascun artigiano quando è scoppiata la pandemia: “Non lasciatevi prendere dal panico e non accettate le offerte di lavoro del primo che passa: la pandemia finirà e l’economia riprenderà come prima, quindi tenetevi pronti per proseguire la collaborazione che abbiamo portato avanti fin qui. Se avete bisogno di soldi vi diamo una mano, ma non buttatevi in attività che potrebbero farvi gola in questo momento, perché poi rischiate di non avere la capacità di svolgere quelle che vi assicurano il lavoro ciascun mese”. A distanza di un anno e mezzo, il tempo ci ha dato ragione e la musica è cambiata, stiamo progettando insieme la crescita, non parliamo più di gestione delle crisi, ma di investimenti e di azioni strategiche da mettere in campo con ciascuno di loro.
Un altro motivo per cui gli artigiani non possono rimanere isolati è la tendenza dei grandi gruppi a ridurre il numero dei fornitori. Un nostro cliente leader di mercato, con ben oltre il miliardo di fatturato, per esempio, è passato da quindici a cinque fornitori, perché la pandemia ha messo in crisi i punti deboli della fornitura miniaturizzata, fatta di aziendine con un massimo di quindici dipendenti, che apparentemente hanno un costo inferiore al minuto, ma gravano nel costo complessivo di relazione perché richiedono tre o quattro manager che si spostano da una regione all’altra per gestirle, con tanto di automobile, telefono, albergo, malattie e ferie retribuite, e così via. Se invece i subfornitori sono cinque, può bastare un manager, magari molto più qualificato.
Lei parla con gli artigiani della filiera come un vero direttore d’orchestra e si avverte il mito del tempo nel suo approccio, che forse trova traccia nella cultura del lavoro diffusa nella regione in cui è nato, il Friuli. Che cosa facevano i suoi genitori nella vita?
Come tutti i friulani, facevano due o tre lavori simultaneamente. Alla fine degli anni cinquanta, prima che nascessi io, mio padre, Sergio Zaina, faceva l’imprenditore edile, aveva incominciato a lavorare come muratore e non aveva neanche la terza media. Quando io avevo due anni, mentre stava costruendo una distilleria di grappa, cadde dalle impalcature; una volta le impalcature erano costruite con materiali veramente poveri: tavole di scarto tenute insieme con chiodi arrugginiti. S’infilzò un polmone e fu necessario un intervento chirurgico straordinario, di cui parlarono i giornali: l’allora giovanissimo professor Tedeschi gli tolse mezzo polmone e lui si salvò, con tutte le conseguenze del caso. Adesso ha 89 anni e sta benissimo, la sua invalidità non l’ha fermato. Anzi, in seguito a quell’incidente, avvenuto quando aveva una trentina d’anni, riprese a studiare, conseguì la licenza media e il diploma di perito disegnatore e andò a lavorare in un’azienda metalmeccanica. Quando poi Pordenone divenne Provincia, lui superò il concorso e fu assunto all’ufficio di gabinetto. Questa si chiama resistenza: la vita che va avanti. Quella di mio padre è una delle tante storie che possono accadere nella vita, ma raccontarle può essere utile ad altri, proprio come lo è la lettura dei classici, per capire che i problemi non sono segno di una predestinazione negativa. Se leggiamo l’Edipo Re di Sofocle, per esempio, troviamo rappresentate quasi tutte le sventure che possono capitare a un uomo, ma il coro che piange e riepiloga le vicende sembra sottolineare che non si tratta di un destino avverso toccato a Edipo, in quanto “predestinato”, anzi, lo spettatore capisce che i problemi fanno parte della vita di ciascuno e, se gli muore un figlio in guerra, non si chiude in se stesso, abbandonando gli altri figli.
Seguendo questo approccio, mio padre ha continuato a dare il suo apporto alla società, non solo alla nostra famiglia, soprattutto quando, in seguito al terremoto del Friuli nel 1976, contribuì alla nascita della Protezione Civile, insieme a Giuseppe Zamberletti, all’epoca Commissario incaricato del coordinamento dei soccorsi dal Governo Andreotti. Ricordo che mio padre lavorava anche di notte e dormiva solo un’ora per occuparsi del coordinamento della provincia di Pordenone, dove ci fu il primo caso di collaborazione fra esercito, vigili del fuoco, alpini, volontari e polizia. Fu il primo esempio in Italia in cui tutto è stato ricostruito immediatamente (il secondo è stato Modena, altra terra di gente molto laboriosa). E ricordo bene come s’infuriò quando il governo propose le casette che erano state mandate nel Belice: “Voi non avete capito niente, noi dormiamo in tenda accanto alla nostra casa e la mettiamo a posto giorno per giorno, portateci del cemento”, disse. E andò proprio così, tant’è che nella ricostruzione del Friuli non mise le mani nessuno, eccetto i friulani.
Oltre al lavoro che svolgeva la mattina in prefettura, mio padre (che tra l’altro è stato nominato Cavaliere della Repubblica, come me) aveva la passione dei fiori, che pian piano erano diventati tanti. Allora mia madre, Angela, che aveva un talento commerciale e imprenditoriale, propose di venderli nei mercati. Poi, siccome l’iniziativa ebbe successo, man mano, arrivarono a coltivare fino a 2000 metri quadri di serre.
Sua madre non lavorava?
Al contrario, anche lei ha fatto un percorso simile a quello di mio padre: aveva incominciato a lavorare come operaia alla Zanussi, all’epoca in cui molti lasciavano le campagne per andare in fabbrica. Tra parentesi, ricordo che la Zanussi è stata la mamma dell’industrializzazione di Pordenone, e non solo: ecco perché oggi ci sono più industrie che persone nel Friuli. Era un’industria con oltre 30.000 dipendenti e 14 infermerie, che fungevano da pronto soccorso per gli infortuni quotidiani che si verificavano tra presse e lamiere. Mia madre si mise a studiare medicina e vinse il concorso per fare l’infermiera, professione che proseguì finché alla Zanussi rimase una sola infermeria, quando non c’erano più fiumi di persone che arrivavano con le corriere a fare i turni, ma una frazione di dipendenti, mentre il resto della produzione era ormai robotizzata.
Allora, come dicevo, oltre a fare l’infermiera, la mamma vendeva i fiori. A un certo punto, si fece dare la liquidazione per dedicarsi completamente ai fiori. Adesso, hanno mantenuto soltanto una serra per loro diletto, anche se continuano a produrre in quantità esagerata.
Quindi, i miei genitori sono partiti da sottozero, ma grazie al loro sforzo intellettuale, hanno ripreso a studiare ed entrambi hanno raggiunto posizioni soddisfacenti nella società, sempre lavorando. Ecco perché mi dicevano spesso: “Studia finché sei giovane, perché studiare mentre si lavora è molto più faticoso”.