L’OCCASIONE CHE NON PENSIAMO
È un’occasione straordinaria tenere la conferenza di fine anno della nostra rivista in una galleria d’arte, la sede dell’Associazione Oniro, a quasi trent’anni dall’inaugurazione della libreria galleria Il Secondo Rinascimento di Bologna. Questo è un posto straordinario, con opere bellissime, un centro d’arte e di cultura che auspico divenga sempre più rilevante a Modena, e non solo.
Prima di stabilire di venire qui, ci chiedevamo dove andare, noi, nel nostro nomadismo, nella nostra dissidenza. Non a caso parlavamo di dove, perché l’occasione esige innanzi tutto il dove. Dove siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Questo dove, che non è né l’origine né la fine, che dovrebbe consentirci di localizzarci e di fermarci, parlando e narrando non prende la forma di un luogo, risulta un punto, o un contrappunto, che non riusciamo a fissare, anche se proviamo a descriverlo.
Questo dove che non vediamo, che non sappiamo, è la condizione del processo linguistico narrativo, dell’itinerario di ciascuno: non può essere fissato in un punto centrale, in un centro ideale, in un punto su una linea, in un axis mundi tra alto e basso, tra inferno e superno per costituire un punto di riferimento, il centro di un sistema. Il punto è l’oggetto nella parola, irrappresentabile e inconcepibile, un oggetto che non si scambia ma è condizione dello scambio, simulacro, inafferrabile e fatuo com’è: Armando Verdiglione, fin dal 1973, lo chiama sembiante, senza riferimento all’ontologia. E, nel libro La dissidenza freudiana del 1978, definisce l’occasione come “dimora del sembiante”, quasi a indicare quanto l’occasione debba all’intervento di questo dove, all’instaurazione dell’oggetto illocalizzabile, l’oggetto dell’identificazione.
All’epoca, negli anni settanta, regnava l’esorcismo dell’oggetto, perché occorreva localizzarsi, situarsi, farsi soggetto, e il dove diventava “Da che parte stai?”: “Stai con gli Stati Uniti o con l’Unione sovietica?”, “Stai con lo Stato o con le Brigate rosse?”. Così il dove spariva facendosi centro tra i due blocchi, un centro ideale, il centro come nome del nulla: il punto localizzabile e fisso, il punto in cui situarsi è il punto ideale, il punto morto. Ecco l’esorcismo: tentare di rappresentare l’oggetto, per demonizzarlo e poi espungerlo. Già Platone aveva chiamato dàimon quell’oggetto, quel sembiante, quel fuoco fatuo e aveva tentato di esorcizzarlo – lasciandolo all’arte e alla possessione che travolgerebbero il poeta – attraverso la conoscenza e la padronanza che qualificherebbero il filosofo.
Ma come padroneggiare l’oggetto dell’identificazione, come conoscerlo, come rapportarsi a esso? In quanto punto di distrazione, di sottrazione, di astrazione, illocalizzabile, insituabile il sembiante non si relativizza, non entra in un rapporto, non è preso tra l’alto e il basso, tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto, non entra nell’alternanza e nell’alternativa. Non consente così che l’occasione possa qualificarsi buona o cattiva, da sfruttare o da perdere: in quanto dimora del sembiante, non di un oggetto conosciuto, situato, localizzato, chi può afferrarla o rifiutarla, sfruttarla o perderla?
“Stare loco nequeo”, “non posso stare in un luogo”, dice Occasio, “dea rara”, nell’epigramma XXXIII del poeta del IV secolo Decimo Magno Ausonio. Non sappiamo dove stia l’occasione. Dicevo che è un’occasione stare in questa galleria, ma, se questo dove è insituabile, noi non siamo localizzati, perché la galleria è un dispositivo del viaggio e qui l’occasione non è esclusa. Se l’occasione fosse un luogo, sarebbe il luogo infernale, il luogo del nulla. Come dovrebbe essere il carcere, secondo l’ideologia penale e penitenziaria. Eppure, lo stesso carcere può divenire occasione di scrittura, come provano i libri Lettere dal carcere di Antonio Gramsci e Il carcere. La questione della parola di Armando Verdiglione.
Nella tradizione, e nell’opera della Scuola del Mantegna (cfr. Fig. 1), Occasio ha la fronte coperta da un ciuffo per non farsi riconoscere. Chi può conoscere l’occasione? E ha la nuca calva: chi può rincorrerla e afferrarla per i capelli? La conoscenza nulla può con l’occasione, se non mutarla in studium, in preoccupazione, in pena. Solo se conosciuta, Occasio diventa Metanoea, “la dea che esige le pene di ciò che si è fatto e di ciò che non si è fatto. Sono la dea che fa penare”. (Ausonio, Epigrammi, XXXIII). E allora quanti lamenti: “Ma questo non è il momento giusto, questo non è il tempo giusto, questa non è la strada giusta, allora aspetto la mia occasione, arriverà la mia occasione”. Ma noi non sappiamo dove sia, quale sia e che cosa sia l’occasione. Se lo sapessimo, l’occasione potrebbe essere pensata come trasgressione rispetto a una normalità ordinaria, come sembra alludere il detto “l’occasione rende l’uomo ladro”: siamo tutti sotto lo schiaffo della legge, siamo tutti prigionieri, siamo tutti precipitati sulla terra, in questa valle di lacrime, ma appena abbiamo l’occasione ne approfittiamo. In questo senso, l’occasione rende l’uomo ladro per chi, una volta negate, idealmente, la legge e l’etica come istanze della parola, considera le norme e le regole come convenzioni sociali, come vincoli, come imposizioni, per cui, appena possibile, è meglio trasgredire, rubare, truffare. Sarebbe questa l’occasione, il luogo del possibile per economizzare l’impossibile eretto a principio della vita?
Ma vi è anche chi rappresenta la propria vita come una vita di stenti, di miserie, di disgrazie: allora si sente vittima, lamenta di essere vittima, della sorte o degli altri, e di non avere mai avuto opportunità, e si consola dicendo: “Arriverà la mia occasione!”. E, allora, aspetta l’occasione pronta, “il miomomento”: questa è l’occasione come riscatto, che non riesce mai, perché vale solo a confermare una vita da vittima. Anche in questo modo è una partita persa, perché è una partita non giocata, in attesa dell’occasione.
Queste rappresentazioni dell’occasione dipendono da un’idea della propria vita che è un’idea di sé: serve a costituirsi come soggetto, come padrone di quel che avviene e diviene. Questo comporta escludere, idealmente, la parola e il suo gerundio: parlando, ovvero ricercando e facendo, nessuno è padrone dell’itinerario e delle sue occasioni. L’idea di padronanza vorrebbe raggiungere il corretto uso delle cose e delle parole. Ma parlando come potremmo eludere la catacresi, l’abuso linguistico? In greco katà to khreòn, da cui catacresi, può tradursi “secondo l’occorrenza”, altra cosa dalla necessità ontologica.
La catacresi, il fare secondo l’occorrenza e in modo opportuno, avvicina l’occasione all’opportunità. I greci personificavano l’opportunità con il dio Kairós, che interveniva in modo opportuno e tagliente, come il rasoio che tiene in mano e su cui poggia la bilancia nel rilievo conservato al Museo Archeologico di Torino (cfr. Fig. 2). Il momento opportuno è tagliente, il tempo è temno, taglio, tempus, non sottostà a Tyche, la figlia di Zeus che decide il destino degli umani, anzi squilibra i piatti della sua bilancia. E in questo rilievo anche Kairós ha la nuca calva.
Con Kairós il tempo non è più destinato e predestinato. Il tempo predestinato è il tempo abolito, è il secondo esorcismo, l’esorcismo del tempo. Il tempo negato o abitato è il tempo idealizzato, è il tempo morto. “Io sento che arriverà la mia occasione”; così l’occasione è sempre legata alla predestinazione e al fatalismo, che può essere il tempo negativo (“Io non ho mai avuto la mia occasione“), oppure il tempo positivo (“Bisogna prendere l’occasione al volo quando arriva”). Il Kairós diverrebbe il momento ontologicamente e fatalmente destinatomi, preso nell’alternativa positivo/negativo. Ma l’occasione non piove dal cielo, dall’Anánke, dalla volontà ideale, in maniera deterministica o indeterministica: non è una fatalità. L’occasione senza più fatalismo indica quanto il destino sia pulsionale e temporale, quanto le opportunità del cammino e del percorso, lungo i sentieri e i bordi, lungo il filo e la corda del tempo, non siano situabili. E, in assenza di fatalismo, non c’è nessun ordine ideale rispetto a cui posizionarsi e dunque nessuna iniziazione, con le sue lusinghe: “Verrà la tua occasione, per cui, intanto fórmati, compi un percorso sacrificale e finalmente verrà la tua occasione“.
Questa tentazione sostanziale e mentale costituisce il ricatto proposto dagli ordini professionali e confessionali, sulla scia dell’insegnamento di Agostino d’Ippona, che consigliava di comportarsi come se fossimo predestinati alla salvezza, anche se non lo sappiamo. E una banalizzazione del pensiero di Agostino appare nel cognitivismo e nella psicologia positiva, che raccomandano: “Tu vedi negativamente, pensi che non ci sia l’occasione? Devi passare dal pensiero negativo al pensiero positivo. Tu non ti senti predestinato? Pensa che invece puoi esserlo, pensa positivo”. Come se l’occasione potesse sottostare alla volontà propria o dell’Altro, come se l’occasione avesse il compito di economizzare, di contenere, di trasmutare il nostro viaggio, anziché indicare che nessun suo elemento, in quanto preso in un processo linguistico narrativo, può essere considerato come un male, proprio o dell’Altro.
Questo precetto Agostino lo attinge da Mani, il fondatore del manicheismo, che attua un compromesso tra il cristianesimo e il pensiero dell’Avesta, il libro sacro dello zoroastrismo. In questa antica religione persiana, da Ahura Mazda è stato creato il bene, da Angra Mainyu il male. Poi, bene e male sono divenuti il buon pensiero e il cattivo pensiero, e il cattivo pensiero potrebbe diventare un buon pensiero. “Non stare lì a vedere tutto nero, prendi l’occasione, pensa positivo e vedrai che riuscirai”. Questa è la gnosi divenuta luogo comune.
L’occasione è indipendente da ciò che io penso e dunque anche da ciò che io desidero: non sottostà all’idea di sé, all’idea di tempo, all’idea di Altro. Nemmeno abolendo, idealmente, il sé, il tempo, l’Altro, potremmo farcene un’idea, pensarli, in modo positivo o negativo. L’occasione non la pensiamo e non la vogliamo: non sappiamo quando e come avviene, per via di catacresi, nella tranquillità, nella sicurezza, nella serenità, senza aspettare, senza rimandare. Teorema dell’occasione: non c’è più tenebra. Assioma dell’occasione: l’occorrenza è originaria. Ciascun elemento del nostro viaggio è un’occasione per la ricerca e per il fare, per la scrittura e per la lettura, per la conclusione e per l’approdo, per la donazione e per la restituzione in qualità.