GOVERNARE IL CLIMA È UN’ILLUSIONE
Sono un negazionista: da vent’anni nego che l’attività dell’uomo incida sul clima. La prima accusata delle sue variazioni è l’anidride carbonica, la CO2 : negli ultimi 150 anni, la sua concentrazione in atmosfera è aumentata da 300 a 400 parti per milione, cioè di 100 parti per milione. Però, per avere un’idea quantitativa di cosa ciò significhi, facciamo questo esempio: in una stanza di 100 m³, 100 parti per milione sono 10 litri. 10 litri di anidride carbonica sono 6 grammi di carbonio, cioè il carbonio contenuto nella combustione di una candelina da torta di compleanno: bruciando una tale candelina s’immette nel tinello di casa nostra, in proporzione, la stessa CO2 che è stata immessa da tutte le attività umane nell’intero pianeta negli ultimi 150 anni.
Si diffonde l’allarme per i cambiamenti climatici, ma i geologi e i geofisici c’insegnano che il pianeta negli ultimi 400.000 anni ha vissuto ere glaciali e interglaciali per un periodo di circa 100.000 anni. Ora viviamo in un periodo interglaciale in cui le temperature sono inferiori a quelle raggiunte nei periodi interglaciali del passato. Non c’è da meravigliarsi che le temperature aumentino ulteriormente fino a raggiungere i valori di quei picchi del passato. Non si capisce perché oggi non debba esserci il riscaldamento avvenuto in altri tempi. Inoltre, la CO2 del passato era inferiore a quella attuale, ma ciò significa che non c’è una correlazione con l’aumento della temperatura, visto che questa è inferiore ai picchi del passato.
Cos’è successo dopo che il pianeta è uscito dall’ultima era glaciale? Nella figura 1 sono rappresentati 11.000 anni di storia climatica. Il livello del mare oggi è superiore di 100 metri a quello di 11.000 anni fa. Ma abbiamo avuto molti periodi caldi, con temperature superiori a quelle odierne: i periodi caldi olocenico, romano e medioevale. Quindi durante gli ultimi 10.000 anni il clima è cambiato varie volte, con temperature che hanno superato quelle attuali. La figura 2, del 2015, sui ritiri dei ghiacciai alpini degli ultimi 10.000 anni, indica che nel passato si sono verificati ritiri dei ghiacciai ben più consistenti di oggi. Vi si notano, ben distinti, la piccola era glaciale, il periodo caldo medievale, il periodo caldo romano e anche un picco in corrispondenza all’anno in cui Annibale attraversava le Alpi (nella figura 2, il periodo corrispondente alla quarta gobba nera, dopo la linea rossa dell’Iceman) con il suo esercito e i suoi elefanti. Allora i ghiacciai erano sufficien[emente ritirati, molto più di oggi, da consentire quel passaggio.
Ciò di cui ci stiamo allarmando oggi, insomma, è già successo nel passato. Chi afferma che solo l’attuale riscaldamento dipende dall’uomo non dice quali siano le ragioni di questi cambiamenti climatici del passato e del perché non potrebbero essere operativi oggi. Se restringiamo ancora l’analisi agli ultimi 1.000 anni, la figura 3 documenta una cosa molto importante: il minimo della piccola era glaciale si è avuto intorno al 1690. È da allora che il pianeta si è riscaldato. Ma che cosa ha fatto riscaldare il pianeta dal 1690 al 1940? Per 250 anni il pianeta si è riscaldato pur in assenza di attività antropiche.
Alcuni hanno sostenuto che il periodo caldo romano o medievale e la piccola era glaciale furono fenomeni solo locali, ma non è così. Nella figura 4, le gocce rosse indicano i luoghi in cui alcuni lavori di ricerca hanno trovato che nel periodo romano ci fu un riscaldamento a livello locale. Sono molti e diffusi, e provano che in quel periodo il caldo fu globale. Lo stesso per la piccola era glaciale, che è testimoniata non solo dalle cronache ma anche da dipinti: alcuni dipinti del tempo rappresentano pattinatori sulla laguna di Venezia ghiacciata e sul Tamigi ghiacciato, ove si celebravano i “frozen festival”, l’ultimo dei quali risale all’inverno 1813-14. Ma è testimoniata anche dall’attività solare che negli anni della piccola era glaciale ha raggiunto un minimo eccezionale (minimo di Maunder), cosicché anche la piccola era glaciale fu un fenomeno globale.
Il riscaldamento attuale è, in tutta evidenza, l’uscita del pianeta dalla piccola era glaciale. Non è escluso che il clima si riscalderà ancora e raggiungerà i valori del passato. Nel periodo dell’era industriale, dal 1880 circa a oggi, la figura 5 indica che il riscaldamento è indubbio, però ci mostra anche che dal 1940 al 1980 – durante il baby boom, il boom industriale e il boom di emissioni, cioè quando c’è stata la prima e importante immissione in atmosfera di anidride carbonica – il clima in realtà per quarant’anni è rinfrescato. Nel titolo di una copertina del periodico “Science & Méchanics” del 1969 gli esperti annunciavano che una nuova era glaciale era imminente e la prima copertina a colori del “Time Magazine” titolava The big freezer. Dopo il periodo 1940-80 di rinfrescamento, il clima riprende a riscaldarsi, e lo fa fino al 2000. Ma in seguito, e per oltre una dozzina d’anni, la temperatura è rimasta stabile, anche se le emissioni di CO2 hanno continuato a crescere in modo esponenziale senza sosta.
Un’altra contraddizione: a circa 10 km da terra nella troposfera equatoriale, i modelli climatici avevano previsto un riscaldamento triplo rispetto al riscaldamento osservato a livello della superficie terrestre. La previsione era stata salutata come l’impronta digitale dell’origine antropica del riscaldamen]to globale. Ma quando sono intervenute le reali misurazioni con termometri su satelliti e palloni aerostatici, ed è stata mappata la temperatura dell’atmosfera terrestre, a 10 km da terra nella troposfera equatoriale è stato osservato non un riscaldamento accentuato rispetto a quello che si osserva a terra, men che meno triplo, ma addirittura un raffreddamento. Quindi l’origine dell’attuale riscaldamento non è antropica.
Tuttavia, c’è chi continua a dire che l’attuale riscaldamento è di origine antropica. Dov’è l’errore? Ecco dove: i modelli climatici che contengono solo i forzanti naturali non riproducono il clima degli ultimi 50 anni. Quando si introducono i forzanti antropici, quei modelli riproducono il clima. E così si è concluso che il riscaldamento attuale è dovuto alla CO2 immessa dall’uomo. La conclusione è un salto logico errato. Potrebbe benissimo essere, invece, che i modelli con i soli forzanti naturali siano sbagliati e che il forzante antropico è stato introdotto ad hoc per avere corrispondenza con il clima sperimentale. Per controllare come stanno le cose, bisogna confrontare i modelli climatici senza il forzante antropico con il clima del passato, quando il forzante antropico non c’era. Ebbene, quando questo confronto si fa, si scopre che i modelli climatici non riproducono il clima del passato: né il periodo caldo medievale né la piccola era glaciale. I modelli sono sbagliati!
Il riscaldamento globale è temuto perché provocherebbe un aumento del numero di eventi climatici severi, come gli uragani. Anche in questo caso, non serve essere climatologi, basta contare gli uragani. Gli uragani di forza 4 che hanno colpito l’America negli 80 anni compresi tra il 1850 e il 1930 erano 10; negli 80 anni compresi tra il 1930 e il 2010 erano 8. Quelli di forza 2, 3 e 4, nei primi 80 anni furono 85 e nei secondi 80 anni, quelli a riscaldamento globale avanzato, furono 83. Lo stesso in totale: furono 149 nei primi 80 anni e 135 nei secondi 80 anni. Insomma, gli uragani sono diminuiti. Probabilmen te una fluttuazione statistica, ma che certamente non può essere spacciata come aumento!
Per quanto riguarda l’impegno a ridurre le emissioni di CO2 , rammento che nel 2001, invitato al Maurizio Costanzo Show, dissi che neanche il Protocollo di Kyoto (con il quale si intendevano ridurre, entro il 2012, le emissioni globali del 6% rispetto ai livelli del 1990) avrebbe avuto successo. Fui sbeffeggiato, il presidente di Lega Ambiente disse che il protocollo di Kyoto era soltanto un primo passo, ma non rispose alla mia domanda su quali sarebbero stati i passi successivi. Ebbene: le emissioni sono state ridotte del 6%? No. Le emissioni dal 1990 a oggi sono aumentate del 60%.
Inoltre, nel 2008, quando era evidente che il protocollo di Kyoto stava fallendo, l’Unione europea ha pur tuttavia approvato il pacchetto 20/20/20. Con questo pacchetto bisognava ridurre le emissioni dell’Europa del 20% rispetto ai livelli del 1990 e bisognava portare al 20% il contributo delle rinnovabili al consumo energetico dell’Europa. Questo consumo è dovuto a petrolio, carbonio, gas e nucleare per oltre l’85 per cento. La parte rimanente è ben lontana dal 20% programmato. L’Europa si è svenata installando impianti eolici e fotovoltaici, per non ottenere assolutamente alcunché di rilevante. Ha ridotto le emissioni, ma sono riduzioni finte: a causa degli elevati costi energetici, molte aziende europee si sono delocalizzate in Asia, cosicché noi europei stiamo emettendo nel cielo di Pechino quello che una volta emettevamo nel cielo di Bruxelles.
Gli Stati Uniti dal 1990 al 2019 hanno invece aumentato le loro emissioni, anche se di poco: del 3%. Invece, le emissioni della Cina e dell’India sono aumentate del 300% e del 350%. Le emissioni dell’Europa sono dell’8% a livello mondiale, e anche se si azzerasse questo 8% non si produrrebbe alcun effetto sul clima, ammesso e non concesso che il clima in questo modo possa essere alterato.
Se consideriamo le emissioni procapite, il fallimento dei programmi di riduzione d’emissione della UE è ancora più evidente. L’India ha una popolazione tre volte l’Europa e il singolo cittadino indiano emette ogni anno ancora 2 tonnellate di CO2 , mentre il cittadino europeo ne emette 7 e la media mondiale è a poco più di 4 tonnellate. Quando l’India raggiungerà anche la sola media mondiale, avrà completamente vanificato qualunque azione che l’Unione Europea possa compiere.
Il consumo dell’energia globale è dovuto al 90% da petrolio, carbone, gas naturale e nucleare. I fautori della transizione ambientale vogliono eliminare i primi tre, perché emettono CO2 , e il nucleare, che per qualche strana ragione non piace, sebbene sia la prima fonte di energia elettrica in Europa. Vorrebbero intervenire sulle gocce del fotovoltaico e dell’eolico nella speranza di colmare il mare, per così dire, che è petrolio, gas, carbone e nucleare.
Non occorre essere scienziati per capire che non può funzionare. Pannelli fotovoltaici e turbine eoliche incidono soltanto sull’energia elettrica, quindi il confronto, per essere onesti, dovrebbe essere fatto sull’energia elettrica (anche se, ai fini del cosiddetto problema climatico, non ha importanza se la CO2 viene dal settore elettrico o no). A ogni modo, anche a guardare la sola produzione di energia elettrica mondiale, quella che viene dalle nuove fonti rinnovabili è irrilevante. La ragione per cui è così è una ragione tecnica: il massimo assorbimento di energia elettrica (circa 60 GW per l’Italia) si ha intorno alle sette di sera, quando il sole non splende e non è detto che il vento soffi come desiderato. Dunque, per soddisfare quel massimo della sera, abbiamo bisogno di tutti gli impianti convenzionali, cioè gas, carbone, nucleare e idroelettrico. Non possiamo pensare di sostituire nemmeno un watt convenzionale con un gigawatt fotovoltaico, perché quest’ultimo conta zero. Allora, per valutare l’opportunità economica dell’installazione degli impianti alternativi, bisogna confrontare la spesa sostenuta per la loro installazione con il costo del carburante convenzionale che è stato risparmiato quando gli impianti alternativi sono in funzione. Il carburante più costoso è il gas. E quando si fa il confronto con il gas gli impianti alternativi risultano in secca perdita.
L’Italia ha installato 20 GW (gigawatt) fotovoltaici, che producono solo 2.6 GW, perché il sole non splende sempre. E questo a fronte di un impegno di oltre 100 miliardi. Noi importiamo energia elettrica dal nucleare francese per il doppio della produzione da fotovoltaico, per un totale di 6 gigawatt. Ora, per produrre 2.6 GW elettrici, ci vorrebbero 3 GW nucleari, che richiedono un impegno economico dell’ordine di 10 miliardi di euro. Ma abbiamo impegnato 100 miliardi di euro nel fotovoltaico per avere la stessa produzione: è un gioco che non può durare a lungo.