PROBLEMI E CONSEGUENZE DELLA TRANSIZIONE ENERGETICA
Il filosofo Emmanuel Le Roy Ladurie sostenne che la civiltà poteva essere considerata come una lotta contro la dittatura del clima. Oggi sembra che la lotta verta sui differenti modi di intervenire contro questa dittatura. Lei non nega la responsabilità degli umani nel riscaldamento globale e condivide l’importanza del protocollo di Kyoto, ma ha criticato le posizioni di Greta Thunberg, di Jeremy Rifkin e dell’ambientalismo estremo. Per quale motivo?
Per un semplice motivo: la “transizione energetica” – ovvero il superamento del dominio delle fonti fossili nella copertura dei fabbisogni energetici, oggi pari all’80%, come trenta anni fa – è un processo di lunghissimo periodo, non realizzabile in tempi brevi, e tantomeno banalizzabile con qualche slogan come fanno l’ammirevole Greta o il guru Rifkin, che da diversi decenni profetizza rivoluzioni che puntualmente non si avverano. Come ho cercato di spiegare nel mio libro del 2018, Energia e clima. L’altra faccia della medaglia (Il Mulino), per comprendere questi processi bisogna ripercorrere la storia. Al carbone necessitò un secolo per superare il dominio della legna che ancora a metà Ottocento era la fonte di energia più utilizzata, quando i trasporti erano assicurati per la quasi totalità dai cavalli, che negli anni venti si contavano in America in 25 milioni di unità, con deiezioni quotidiane per 500 mila tonnellate. Altro che bei tempi antichi, rimpianti da un ambientalismo che ignora le pessime condizioni ambientali del passato. Anche al petrolio occorse un secolo per scalzare il carbone, solo all’indomani della seconda guerra mondiale, mentre il gas naturale impiegò novanta anni per arrivare a coprire un quarto dei consumi di energia. Sostenere che le nuove rinnovabili, solare ed eolico, che oggi coprono appena 2-3 punti percentuali dei consumi primari di energia, possano divenire dominanti nel giro di pochi decenni è dire cosa impossibile, ma funzionale a sostenere politiche a favore di queste risorse e dei suoi produttori. Risorse che vanno penetrando nei sistemi energetici grazie agli imponenti sussidi loro riconosciuti. Nello scorso decennio i consumatori italiani hanno sussidiato le rinnovabili per 130 miliardi di euro, pari a circa 153 miliardi di dollari, più di quanto costò il progetto Apollo 11 che portò Neil Armstrong ad allunare nove anni dopo l’annuncio del presidente Kennedy. Non direi che quel che abbiamo speso abbia prodotto risultati comparabili. Ne hanno beneficiato soprattutto l’industria cinese e i pochi che vi operano nel nostro paese. “Dire le cose come stanno” ritengo sia l’unico modo per evitare costose illusioni, cercando di perseguire interessi generali e non di parte.
A metà luglio, la Commissione europea ha stabilito l’obiettivo di ridurre le emissioni di CO2 del 55% entro il 2030. Anche ammettendo che una tale limitazione sia utile per ridurre il riscaldamento globale, ritiene che questa riduzione sia tecnicamente possibile entro questa data? La questione non è tecnica, ma economica e soprattutto sociale. L’insieme di proposte contenute nel Piano Fit for 55 (per ridurre del 55% le emissioni entro il 2030) – se approvate da Parlamento e Consiglio europei – avrebbero tre essenziali conseguenze: a) un aumento enorme dei prezzi dell’energia difficilmente sopportabile dalle famiglie italiane, l’8% delle quali soffre la cosiddetta povertà energetica; b) una perdita di competitività delle imprese italiane sui mercati internazionali e interni verso le industrie dei paesi in cui vigono standard emissivi molto meno stringenti. Facile immaginare che molte di queste imprese avranno convenienza a localizzare la loro attività in aree più permissive, con l’effetto di ridurre le nostre emissioni, ma di aumentarle in misura più consistente nelle aree dove andrebbero a operare per le loro molto più inefficienti tecnologie, peggiorando quindi le cose. L’idea poi della Commissione di imporre dazi all’importazione di molti beni (acciaio, cemento, etc.) rischia di aprire un conflitto internazionale d’impronta protezionistica con un danno per l’intero commercio mondiale; c) un forte aumento della disoccupazione causata dall’emarginazione delle industrie legate al passato paradigma tecnologico, in primis quella automobilistica, per l’imposizione contenuta nel richiamato Piano, che prevede nell’arco di poco più di un decennio, al 2035, la vendita di solo auto elettriche.
Questa decisione della Commissione europea segue all’appello di 27 grandi aziende (dalla Coca Cola all’Enel, da Sky a Ikea Retail, da Uber a Volvo) affinché siano proibite le vendite di auto a diesel, a benzina e anche ibride entro il 2035. In che modo questa proposta della Big Industry comporterebbe la devastazione del settore automotive e di altri campi dell’economia mondiale, in particolare delle piccole e medie imprese italiane?
Trovo abbastanza intollerabile che imprese di alcuni settori auspichino decisioni che ne danneggerebbero altre, come se esse non fossero responsabili di emissioni di anidride carbonica. Un classico esempio di green washing: vantare meriti climatici senza averne alcun diritto. Quanto all’industria automobilistica tradizionale, che conta nella sola Europa 11 milioni di occupati, difficilmente potrebbe riconvertirsi alla sola auto elettrica in tempi così brevi, con la conseguenza di dover dipendere da altri paesi, specie la Cina, che detiene un controllo molto maggiore di queste tecnologie e soprattutto delle materie prime e dei materiali critici necessari alla mobilità elettrica e anche alla produzione di nuove risorse rinnovabili, solare ed eolico in primis. Risultato: l’Europa verrebbe a dipendere dalla tecnologia e dall’industria manifatturiera cinese, sostituendo così alla dipendenza dal petrolio e dal metano esteri – prodotti e venduti da un gran numero di paesi – una dipendenza molto più critica dal quasi monopolio della Cina. Con una perdita netta di sovranità.
Il piano di investimenti previsti per il Green Deal europeo sarà sufficiente per attuare, almeno in parte, la transizione ambientale in Europa? E basteranno i fondi stanziati per l’Italia?
I fondi stanziati non saranno affatto sufficienti a conseguire gli obiettivi fissati, la riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030. La valutazione è di un fabbisogno di investimenti di 3.500 miliardi nell’arco del decennio: circa cinque volte l’intero ammontare del NGEU che destina all’ambiente un terzo della sua dotazione. La domanda è comunque un’altra: il gioco vale la candela? La rivoluzione – perché di questo si tratta – proposta dall’Europa sarà in grado di ridurre le emissioni non già europee, ma globali, prodotte nell’intero mondo? Si dimentica che è fondamentale ridurre queste, non quelle tedesche, italiane o francesi. Ebbene, la risposta è, ahimè, negativa. Le proposte avanzate non cambierebbero l’aritmetica emissiva per due ragioni: a) perché il calo delle emissioni al 2030, ammesso e non concesso si attuasse per intero il Piano Fit for 55, sarebbe del tutto marginale; b) perché la prevedibile delocalizzazione delle attività produttive in aree con normative più lasche aumenterebbe le emissioni globali, con un saldo netto di segno incerto. Ridurre le emissioni nel 2030 del 55% rispetto a quelle del 1990 significherebbe abbatterle di 2,0 miliardi di tonnellate: da 3,7 a 1,7. Considerando che dal 1990 al 2020 si erano già ridotte da 3,7 a 2,5 miliardi di tonnellate (-32%), il calo effettivo sarebbe di 0,8 miliardi di tonnellate (-32%). In dieci anni si chiederebbe in sostanza di fare quello che si è fatto nei trenta trascorsi, nonostante l’azzoppamento causato dalla pandemia. Evento mai menzionato nel Piano, quasi fosse irrilevante. Rapportando il calo previsto di 0,8 miliardi di tonnellate alle emissioni attese nel 2030 di 36-38 miliardi di tonnellate, si arriva alla conclusione che il contributo europeo alla riduzione delle emissioni sarebbe di appena il 2%: percentuale statisticamente irrilevante, date le mille variabili che incidono su entrambe le cifre del rapporto. Si otterrebbe una riduzione molto maggiore se si destinasse una parte degli investimenti in paesi con dotazioni tecnologiche inefficienti e largamente più emissive delle nostre, ma questo richiederebbe una cooperazione internazionale nella lotta ai cambiamenti climatici altra da quella ipocrita di cui i paesi di vantano nelle inutili conferenze internazionali. Già nella conferenza del 2009 i paesi occidentali si impegnarono a finanziare i paesi poveri per 100 miliardi di dollari l’anno. Impegno ribadito nel famoso Accordo di Parigi del 2015. Ebbene, quegli impegni sono stati totalmente disattesi, non andando oltre pochi miliardi di dollari rispetto ai finanziamenti promessi. Con la pretesa per giunta che i paesi poveri non mirino a beneficiare degli stessi beni di cui il mondo ricco usa e abusa.
La Cina propone all’occidente un apparente paradosso: è il paese maggiormente dipendente dal petrolio e dal carbone, ma anche quello più avanzato nell’utilizzo di tecnologie innovative impiegate nelle energie rinnovabili, eolico e solare. Per quale motivo? Che implicazioni economiche ha questa posizione per gli altri paesi? Ci stiamo avviando alla dipendenza dall’energia green cinese?
A quest’ultima domanda ho già risposto positivamente: la Cina mira a divenire leader mondiale nelle nuove tecnologie energetiche che l’Europa, e molto meno l’America, ambisce a recepire in modo suicida. La Cina, d’altra parte, mira a divenire la prima economia del mondo con una crescita economica ampiamente superiore a quella del resto del pianeta. E per riuscirvi abbisogna di bassi costi dell’energia, essendo sempre più costretta a importare petrolio e metano, i cui prezzi sono al di fuori della sua influenza. Per riuscirvi deve quindi fare affidamento massicciamente sul carbone, da cui trae la maggior parte della sua produzione elettrica. Mentre lega a sé l’Europa fornendole tecnologie rinnovabili, la Cina continua a sviluppare al suo interno centrali a carbone che contribuiscono alle emissioni globali, molto ma molto di più delle scarne riduzioni europee.
Secondo un’inchiesta del “Guardian”, una buona parte dei componenti usati nei pannelli solari cinesi viene costruita nei Laogai, i campi di lavoro forzato in cui sono internati migliaia di uomini e di donne della minoranza islamica degli uiguri e di altri dissidenti rispetto al regime. In che termini i principi della sostenibilità ambientale non possono sopraffare i diritti e le esigenze delle persone?
L’America ha preso coscienza di questo problema e non intende sviluppare il fotovoltaico a spese dei diritti delle minoranze cinesi. Quel che sorprende è invece l’assordante silenzio dell’Europa: segno che le pressioni delle lobby delle rinnovabili sono in grado di mettere a tacere ogni difesa della libertà e dei diritti elementari nei paesi da cui ci approvvigioniamo.