STIAMO CHIEDENDO LA LIBERTÀ
Le proteste contro il governo cubano, iniziate all’inizio di luglio, sono state considerate dai giornali italiani una novità assoluta, come se solo ora, anche a causa della pandemia, il popolo cubano si ribellasse al regime comunista. Eppure, lei e altri dissidenti e profughi, in Europa e negli Stati Uniti, da anni denunciate, anche sul nostro giornale, il malgoverno, se non i crimini, del governo cubano, fin dai tempi della leadership di Fidel Castro…
Una buona parte della stampa italiana molto spesso si è rivelata indifferente alle reali sofferenze di determinate zone del mondo. Soltanto ora, e non solo nel caso cubano, il mondo comincia a comprendere il significato e la portata della dottrina di Antonio Gramsci e della Scuola di Francoforte: l’egemonia sui media e l’intellettuale organico sono due pilastri di questa ideologia. Per anni i giornalisti hanno seguito un copione in cui l’analisi è rimasta in superficie. A mio giudizio, i veri intellettuali sono pochi, per la maggior parte si tratta di impiegati del potere, la cui pratica non è altro che l’applicazione del marxismo culturale in questa debole democrazia.
È vero che la protesta a Cuba questa volta ha toccato molti punti dell’isola, dalle città orientali a quelle occidentali. Ma la stampa italiana e il resto dell’Occidente sembrano sottovalutare il sacrificio di chi iniziò la battaglia nel 1959, quando Fidel Castro, senza dichiararlo, cominciò a mostrare il suo allineamento con il socialismo reale. Per esempio, dal 1960 al 1966, centinaia di ex combattenti contro il regime del precedente dittatore, Fulgencio Batista, affrontarono Castro nel modo da lui imposto, con le armi. Quando Castro dichiarò il carattere socialista della sua rivoluzione nel 1961, nulla si muoveva senza il ferreo controllo della dittatura. Nel 1976, il Comitato per i diritti umani fu creato nel carcere dell’Avana su iniziativa di Ricardo Bofil e di Gustavo Arcos Bergnes, un ex collega di Castro nella sua prima impresa violenta, l’assalto alla Caserma Moncada a Santiago de Cuba del 26 luglio 1953. Da allora, a Cuba sono state fondate molte associazioni per i diritti umani, ma la loro azione è stata limitata a causa delle persecuzioni contro i loro aderenti. Ho un’esperienza diretta di ciò che sto dicendo.
Queste ultime proteste, che a mio parere non si fermeranno, sono state avviate da giovanissimi, dopo quindici anni di assenza di Fidel Castro dalla scena politica. Questa generazione comincia a dimenticare la retorica soffocante di Castro, si nutre delle informazioni degli influencer e delle nostre esperienze trasmesse in modi diversi. Una frase espressa da diversi giovani a Cuba in questi giorni ha colpito profondamente chi vive fuori dell’isola: “Abbiamo fame, siamo malati, ma quello che chiediamo questa volta è libertà”. E molto commovente, addirittura, è stata la lettera di un giovane, inviata e letta in lingua inglese al presidente americano: “Quello che vogliamo e stiamo chiedendo è la libertà”!
Il governo di Miguel Díaz-Canel, che ha seguito quelli dei fratelli Castro, aveva suscitato nuove speranze, sia in materia economica sia per le libertà dei cittadini. Cosa non ha funzionato?
Miguel Diáz-Canel fu sostenuto da Raúl Castro per un calcolo politico. Era stato segretario del Partito comunista nella provincia di Holguín, la favorita dei fratelli Castro, anche perché è la zona della loro nascita. In quel periodo Díaz-Canel dimostrò fedeltà e sottomissione nei confronti dei fratelli Castro, per questo emerse l’idea di considerarlo il possibile successore.
Nessuno che abbia mai vissuto in un paese del cosiddetto socialismo reale avrebbe potuto pensare che Díaz-Canel avrebbe fatto delle vere riforme. Canel doveva garantire continuità al regime dittatoriale castrista, obbediente nel seguire gli ordini di Raúl, ma anche degli esponenti della sua famiglia. Tutto sembra indicare che dietro le quinte, dopo la scomparsa di Raúl dalla scena politica – non si sa se sia morto o completamente inabile – al comando sia subentrato il sicario fedele a Fidel dal 1953, il generale Ramiro Valdés, o il genero, membro del politburo e generale, Rodriguez López-Callejas, oppure i figli Alejandro e Mariela Castro Espín. Alla domanda su cosa non ha funzionato a Cuba posso rispondere quanto segue: il comunismo è incompatibile con la natura umana.
Quale incidenza nel tracollo dell’economia cubana hanno avuto l’inasprimento delle sanzioni statunitensi e il venir meno del turismo a causa del Covid-19?
A Cuba i cittadini comuni non hanno mai avvertito i benefici dell’incremento del turismo, tranne i lavoratori delle aree direttamente interessate. Il famigerato embargo è un’assurdità introdotta dalla propaganda e sostenere che si tratti di un blocco mi sembra un’offesa all’intelligenza. Kennedy ordinò di piazzare le sue navi nelle acque antistanti a Cuba solo per poche ore, nell’ottobre 1962, a proposito della crisi dei missili sovietici! Il resto è un inganno. In questi anni l’embargo americano è stato timido e simbolico, perché varie grandi aziende agricole americane hanno esportato per anni pollame, riso, anche zucchero, in un paese che è stato il primo produttore al mondo di questo prodotto. Peraltro, a parte gli USA, Cuba ha mantenuto rapporti commerciali con tutto il mondo, e se qualche paese ha chiuso i suoi rapporti commerciali con Cuba, il motivo è che Cuba non paga, è un pessimo debitore. Cuba deve milioni al Club di Parigi, alla Russia e a tanti altri stati. Il fallimento di Cuba è dovuto al fatto che il comunismo cancella la memoria produttiva, e poi il resto della memoria: crolla l’economia, poi crolla anche la morale. Un esempio chiaro è stato fornito dall’Unione Sovietica che, pur avendo occupato un sesto del territorio mondiale ed essendo stata il paradiso delle materie prime, è esplosa!
Il governo cubano si vantava da decenni di avere un invidiabile sistema sanitario e di essere all’avanguardia anche per i vaccini. Era anche questa soltanto propaganda messa a nudo dalla pandemia?
Prima del castrismo, i cubani usufruivano di due facoltà di medicina di ottimo livello, a Santiago di Cuba e all’Avana. Si era costituita una tradizione in materia di medicina, che il regime ha ereditato e poi sfruttato: la sanità e la vocazione sportiva si sono convertite in due pilastri della propaganda del regime. L’informazione filtrata e controllata con cura veniva diffusa ai cubani e all’estero una volta approvata dal Partito. Era una manipolazione brutale, un crimine mediatico, possibile anche per la complicità su cui ha contato Castro fuori dall’isola. Continuo a sostenerlo: Castro è stato un dittatore fortunato.
Cosa distingue le attuali proteste dalle battaglie dei dissidenti negli anni precedenti? Chi sono gli attuali leader?
Queste proteste non hanno un leader specifico, l’unica guida è la convinzione dei cittadini di meritare la libertà. A quanto pare, è una protesta guidata dalla rabbia, dalla coscienza e dalla determinazione di procurarsi la libertà anche a caro prezzo. Non c’è un gruppo di manifestanti cha abbia un’organizzazione molto diversa dagli altri. Ma hanno protestato cercando la libertà, la cui mancanza li ha asfissiati da quando sono nati.
Per molti anni protestare a Cuba costituiva un atto molto grave. Il gruppo cui appartenevo a Cuba nell’aprile 1994 indisse una protesta di fronte alla sede della polizia segreta Villa Marista. Credo ci abbia salvati il fatto che ci hanno fermato prima che si producesse la manifestazione, perché i servizi segreti avevano organizzato in tutta la zona una sorta di circo, una trappola, in cui offrivano ai bambini dolcetti e giocattoli che i piccoli non vedevano da anni. Il regime aveva concepito il piano di autoaggressione per poi sottoporci ai tribunali castristi e subire le pene più severe. Adesso le proteste hanno la copertura della rete, noi eravamo quasi indifesi. Mi ricordo che mi sono presentato alla redazione dell’ANSA a Cuba davanti a un giornalista argentino appena arrivato a Cuba, che ha osato pubblicare la notizia della nostra protesta. Ringrazio l’argentino, credo si chiamasse Marcelo, per la sua determinazione e professionalità, e per il suo coraggio. Non possiamo dimenticare la straordinaria complicità di cui ha usufruito Castro.
I leader dissidenti di allora per ora rimangono in prigione o esiliati a casa. Tra i più conosciuti sono José Daniel Ferrer e Rosa María Payá, figlia del dissidente Osvaldo Payá, premio Zajarov, morto misteriosamente in un incidente nel 2012. Ma Rosa Maria adesso sembra sia rimasta negli Stati Uniti, è una specie di rappresentante dell’esilio cubano. Mentre una nuova forma di dissidenza viene dal gruppo di artisti denominato San Isidro, che ha coniato lo slogan che ha scardinato l’apocalittico “Patria o Muerte” di Fidel Castro. Adesso centinaia di migliaia di cubani dentro e fuori Cuba hanno gridato e continuano a gridare: “Patria y Vida”.
Ritiene che questi movimenti possano portare Díaz-Canel a fare riforme efficaci oppure occorre una vera svolta politica, con il tramonto del comunismo e l’introduzione delle libertà in materia di politica, di economia, ma soprattutto di pensiero e di parola?
Anche se vorrei sbagliarmi, sono quasi convinto che, finché la famiglia Castro rimarrà in vita, Díaz-Canel non farà nessuna riforma efficace, mentre dubito che con la scomparsa di Raúl il potere di Díaz-Canel possa sopravvivere. Lui ha molta paura di finire come stanno finendo alcuni generali a Cuba, perché il potere reale lo detengono altri. Stranamente sono morti, nel giro di dieci giorni, otto militari di alto rango.
Vedo un panorama drammatico nell’isola, con ancora molte sofferenze e il pericolo di una sorta di guerra civile tra militari. Da qualche anno a questa parte mi sembra si stia profilando una soluzione finale, con la rivolta da parte dei militari che provengono dall’Accademia, uomini relativamente giovani, come ad esempio, il primo della lista delle otto vittime che ho menzionato sopra: Agustin Peña, che aveva 59 anni e molto potere. È un mistero da svelare sicuramente nei prossimi mesi. Potrebbe anche scatenarsi una lotta interna tra interessi divergenti, persino nel seno della famiglia di Raúl, con qualche generale di alto rango in mezzo al conflitto.