LA CRISI È FRUTTO DEL DISPREZZO PER IL LAVORO?
I servizi di registrazione dati (da remoto e on-site), che offrite dal 1977 a grandi, medie e piccole imprese che operano su tutto il territorio nazionale, richiedono precisione e attenzione, soprattutto nell’area contabilità. Non dev’essere stato facile trovare e formare collaboratori disposti ad apprendere nei dettagli le procedure di ciascun nuovo cliente…
Certo, non è stato e non è tuttora facile, perché il nostro lavoro ci porta a imparare in continuazione e occorre tanta umiltà per ascoltare con attenzione, soprattutto quando si crede di avere raggiunto un livello di specializzazione tale da svolgere i propri compiti a occhi chiusi. Nel nostro lavoro non sono ammessi gli errori, quindi non possiamo mai permetterci di chiudere gli occhi. Per fortuna, in oltre quarant’anni, ho incontrato pochissime persone “spavalde”, che pretendevano di avere “imparato la lingua” dell’impresa cliente al primo incontro. La maggior parte delle collaboratrici e dei collaboratori, invece, ha dato prova di serietà, impegno, dedizione al lavoro ed esigenza di giungere alla qualità assoluta delle cose che si fanno, secondo le occorrenze che intervengono giorno per giorno nei dispositivi con i clienti. Tuttavia, l’imprenditore deve considerare che un collaboratore, nel momento in cui viene assunto, raramente è già “pronto” per mettersi all’opera e riuscire a portare a termine il proprio compito: dev’essere formato, non soltanto negli aspetti tecnici, ma anche nell’approccio adottato dal team in cui sarà inserito verso i clienti, i fornitori, i colleghi e lo stesso imprenditore. All’inizio alcune persone possono sembrare meno talentuose, perché sono un po’ timide o perché hanno bisogno di essere spalleggiate per acquistare fiducia nelle loro capacità. Io ho sempre ritenuto opportuno dare fiducia alle persone che sembrano meno sicure delle proprie capacità, perché spesso si tratta di prudenza, più che d’insicurezza: io stessa, prima di partire in quarta con un nuovo lavoro, ho bisogno di raccogliere il maggior numero possibile di elementi e di fare ipotesi di direzione, altrimenti rischio di fermarmi al primo intoppo, come accade a chi viaggia senza una mappa e senza una meta.
Il tema di questo numero del giornale è Il lavoro, l’industria, la città: senza il lavoro, non c’è industria e nemmeno città, considerando che le prime città sono sorte nei luoghi in cui si svolgevano attività commerciali come scambio di merci prodotte da botteghe artigianali, le prime forme d’industria. Eppure, oggi sta diffondendosi la credenza che si possa fare a meno del lavoro e che occorra inseguire il successo attraverso i social, divenendo influencer o trovando l’idea geniale per arricchirsi senza fatica. In realtà, anche coloro che hanno un seguito sui social non possono fare a meno di lavorare, pubblicando post in continuazione e coltivando le amicizie in rete, e non solo…
Diciamo che quello dell’influencer può essere un lavoro, ma io non l’avrei mai fatto, perché si rivolge a un pubblico che non ama ragionare sulle cose e crede che i risultati si ottengano per magia, che basti uno schioccar di dita. Nel lavoro vero, non c’è niente di magico né di scontato, devi attraversare difficoltà, seguire procedure, attenerti alle norme e alle regole. E, per riuscire, occorrono impegno, costanza, allenamento intellettuale e occorre affrontare ciascun caso come nuovo, anziché sedersi su improbabili allori, perché, per quanto la qualità del tuo lavoro sia stata riconosciuta, per quante referenze tu possa avere collezionato, al cliente importa l’attuale, la riuscita di ciò che ti ha commissionato. Quindi, non puoi mai abbassare la guardia: altro che schioccar le dita.
In questa mentalità che disprezza il lavoro manca l’amor proprio. Qual è, infatti, la soddisfazione maggiore per un individuo? Riuscire in un’impresa, riuscire in un sogno, riuscire con le proprie forze. Oggi, molti giovani credono che non ci sia bisogno di fare alcuno sforzo, rimangono in famiglia fino a tarda età e, anche se non lavorano, vivono e viaggiano grazie alla pensione dei genitori. Il problema non sono i giovani, ma chi glielo permette. Non erano così i nostri genitori: una volta terminati gli studi, dovevamo andare a lavorare, non c’era alternativa, non ci davano nessun aiuto, se non nel caso in cui dovevamo avviare un’attività in proprio e soltanto se ne avevano la possibilità. Oggi alcuni genitori fanno addirittura sacrifici per consentire ai figli non solo di essere mantenuti, ma anche di esaudire i propri capricci. Se c’è modo di guadagnare senza fare nulla, perché lavorare? È la logica di coloro che vivono con il reddito di cittadinanza, la logica dello stato-mamma, che sta minando alle basi la nostra civiltà fondata sul lavoro. Queste politiche assistenzialiste accampano la giustificazione che bisogna combattere la disoccupazione, ma, al contrario, servono a creare ulteriore disoccupazione, perché siamo arrivati all’assurdo che molti si accontentano di qualche lavoretto in nero per non perdere il reddito di cittadinanza o l’indennità di disoccupazione. Il risultato è che molti imprenditori sono disperati perché non trovano collaboratori. Allora, mi chiedo se la crisi non sia anche frutto di questo disprezzo per il lavoro.