LE BASI DEL LAVORO: FORMAZIONE E INTRAPRENDENZA
Il lavoro, l’industria e la città sono tre aspetti che riguardano il suo itinerario imprenditoriale. Oggi il vostro gruppo, Curti Industries, impiega nelle sue divisioni in Italia e all’estero oltre seicento lavoratori, che operano in diversi settori di produzione, dalle macchine utensili al packaging, dalla robotica all’aerospace, innovando nella progettazione di macchine e sistemi complessi attraverso team dedicati al cliente. La vostra intensa attività produttiva da oltre sessant’anni continua a offrire opportunità di lavoro a molti giovani delle città in cui opera. Ma quali sono le questioni che lei riscontra nel reperimento di collaboratori specializzati, in una fase come quella attuale in cui sono proprio le imprese a fare i conti con il problema dei giacimenti occupazionali inutilizzati, mentre la politica istituisce sussidi di disoccupazione per lavoratori inoccupati?
Il lavoro non si crea con i bei proclami ma con le capacità. Queste riguardano prima di tutto la formazione, cioè la capacità di fare le cose, e poi l’intraprendenza, cioè la capacità di rischiare, avendo entusiasmo e impegnandosi con abnegazione. Sono gli stessi elementi che occorrono quando si fa ricerca, cosa sempre più necessaria soprattutto all’imprenditore e non soltanto in termini di produzione industriale. Paesi come il nostro, dove i costi del lavoro e dell’energia sono molto elevati, devono affrontare i problemi senza preconcetti e ideologie. Abbiamo visto recentemente a che livelli sta arrivando il costo dell’energia, per esempio, e questo comporta la capacità di prendere anche decisioni impopolari, ma che nel medio e lungo periodo premiano, soprattutto in un paese manifatturiero come il nostro, povero di materie prime.
Oggi, il costo del lavoro in Italia corrisponde alla differenza fra il costo per l’azienda e il netto che il dipendente si mette in tasca, ridotto di più della metà a causa del cuneo fiscale e degli oneri contributivi, mentre le aziende rischiano di andare fuori mercato. A meno che queste ultime non abbiano prodotti talmente innovativi da costringere l’acquirente a cercarle: soltanto in tal caso possono permettersi di immettere sul mercato prodotti a prezzi più elevati della media. Ma per produzioni di questo tipo occorre avere tecnici bravi, ingegneri e periti all’altezza della scommessa, e parlo per il settore della meccatronica che è quello che conosco meglio. Occorre avere personale formato che a sua volta, come avviene per l’imprenditore, deve avere la capacità di rischiare e disporre di tutte le condizioni che occorrono per incominciare un percorso formativo efficace. Noi siamo meccatronici, costruiamo macchine automatiche. Avevo un ottimo tecnico francese, a noi costava 5000 euro al mese e percepiva uno stipendio netto di 2300 euro: è andato a lavorare in Svizzera e percepisce uno stipendio netto di 3850 euro. Come facciamo noi a competere da soli, con queste premesse? Per questo occorre anche capire in quali scuole bisogna investire, per preparare quei tecnici che poi le aziende fanno a gara per accaparrarsi, perché sono in pochi.
Cosa non funziona nell’ambito formativo?
Spesso accade che arrivino da noi ragazzi con ottimi curricula scolastici, ma sembra che non vi sia corrispondenza con ciò che sono capaci di fare e quindi sarà poi l’imprenditore che li assume a dover valutarne la formazione e a selezionarli in base alle esigenze della propria impresa. Con il risultato che di fatto il sistema scolastico scarica le proprie responsabilità sull’impresa, che, essendo l’ultimo anello della catena formativa, si trova addossate le mancanze di alcuni istituti tecnici e più in generale delle scuole secondarie. A mio parere qualcosa è cambiato da quando sono arrivati nelle scuole quelli che oggi sono gli ex studenti del sessantotto, i miei coetanei. Evidentemente hanno pensato che si dovesse insegnare non solo la disciplina per cui erano stati arruolati, ma anche pareri relativi a come si sta al mondo.
Spesso insiste il pregiudizio secondo cui frequentare la scuola tecnica è un ripiego. Quindi, c’è anche una precisa mentalità da mettere in discussione. Accade così che giovani inquieti, iscritti alla scuola tecnica, siano etichettati come studenti di serie B. In che modo si dissipa questo pregiudizio?
In passato abbiamo avuto capi officina bravissimi, che avevano frequentato quello che all’epoca si chiamava l’avviamento o avevano il diploma di terza media, come è accaduto nel caso di qualche responsabile tecnico davvero geniale. Queste persone avevano una bassa scolarità, che però non ha impedito loro di impegnarsi e continuare a crescere. È vero che alcuni giovani sono più inquieti, ma, se sanno usare le mani, la scuola professionale può insegnare loro un lavoro. Non è interessante una scuola professionale come quella in cui i vari ministri che si sono avvicendati negli ultimi anni hanno introdotto nei programmi di studio materie che la facevano assomigliare a un liceo. La stessa università sbaglia a snobbare gli istituti tecnici. Gli imprenditori spesso cercano tecnici che puntualmente non trovano e il gran numero di inoccupati non ha la formazione necessaria per consentire a queste aziende di produrre in Italia, visti gli alti costi del lavoro di cui dicevamo.
Il problema è che in questo paese c’è chi ha paura che i professori di alcune scuole, che non funzionano come una volta, non siano disposti a cambiare la propria sede di lavoro e quindi alcuni amministratori pubblici preferiscono tacere, perché altrimenti c’è il rischio di scontentarli e di non avere il loro voto. Oppure può accadere che l’interesse di un sindacato sia maggiormente rivolto a guadagnare consenso da parte di questi professori. Questo purtroppo è ciò che accade e di cui non si parla, perché è evidente che, se in una scuola in cui si diplomano 50 studenti all’anno e soltanto 3 di questi trovano lavoro, la stessa scuola dovrebbe essere messa in discussione. E non si può nemmeno continuare a illudere le famiglie degli studenti che poi non trovano lavoro o lo trovano dopo mesi o anni. Io abito a Imola, città in cui da alcuni anni si svolge il corso di laurea professionalizzante in ingegneria meccatronica. Quest’anno c’erano a disposizione 25 posti, ma fino all’ultimo gli iscritti erano 5, e questo la dice lunga sull’orientamento e sulla formazione che deve avvenire anche all’interno delle famiglie.
L’orientamento formativo è essenziale per individuare in modo chiaro quanti sono i posti di lavoro occupabili per distretto o per città, in modo da indicare alle famiglie quali sono le scuole più convenienti da frequentare. Se poi si è ricchi e si vuole fare filosofia è una scelta personale – oltretutto la filosofia in questo periodo sta avendo grandi consensi –, ma occorre poi vedere quanti sono gli occupati. Più spesso accade che siano invece alcuni di questi laureati a portare avanti ideologie e idealità che cavalcano luoghi comuni.
In Italia, nel 2018, era stata avviata l’alternanza scuola-lavoro, ma poi, caduto il governo, il nuovo esecutivo aveva cercato di compiacere il sindacato, depotenziando sempre di più questo tipo di formazione. È evidente che non può essere uguale la pratica dello studente di un istituto tecnico rispetto a quella di un liceale: se quest’ultimo ha 800 ore di alternanza scuola-lavoro, non si sa cosa fargli fare se non fotocopie in biblioteca, in qualche azienda o in Comune, piuttosto che lavare i piatti in qualche nota catena di fast food, come pure è accaduto. La formazione effettuata in questi termini è sbagliata. Guardiamo cosa avviene nelle scuole di Austria e Germania, dove il loro cosiddetto sistema duale funziona da quarant’anni. Ma il sindacato replica che in questo modo si sfrutterebbe il giovane. Invece non è così, perché quel giovane è anche pagato dall’azienda, mentre impara un lavoro.
Probabilmente nell’avvenire la formazione si effettuerà sempre di più nelle aziende. Emilio Fontela, a proposito del brainworking, scriveva che l’impresa è l’elemento centrale della società e, per questo, dagli anni settanta a oggi, viene sempre più attaccata dalle ideologie. Ma, senza impresa, non c’è lavoro e non c’è città…
Certamente. L’impresa comporta una serie di valori che sono quelli della città, in cui si devono integrare i diversi aspetti del lavoro e della vita. Essa stessa è come una piccola città, un microcosmo in cui intervengono tante relazioni, idee e esperienze. Allo stesso modo può essere intesa la famiglia, anche se oggi è più difficile trovare nelle famiglie questi valori. Occorre essere pragmatici: è finita l’epoca dei colletti bianchi sulla torre eburnea e gli operai in tuta blu che stanno in basso, a faticare e a sudare. Occorre che siano tutti sullo stesso piano. Noi stiamo costruendo il capannone nuovo e gli uffici tecnici saranno il più possibile adiacenti all’officina, perché abbiamo constatato che la distanza anche fisica fra i vari reparti porta a problemi enormi, alla mancanza di scambio d’informazioni e di comunicazione, quindi alla mancanza di decisione per risolvere i problemi. Ma io non posso fare il carabiniere dei miei centinaia di collaboratori. Occorre che siano loro ad avere la consapevolezza dei problemi, cercando di trovare soluzioni con il proprio ingegno, anche chiedendo e cercando di costituire dispositivi per fare e non pensando che qualcuno possa indicare dall’alto cosa fare, perché non è così che si risolvono i problemi.
Trasformare l’approccio al lavoro e alla formazione implica anche la messa in questione delle ideologie contro l’impresa e contro chi produce, perché più imprese aprono e più sono promossi intraprendenza e lavoro…
Certamente. Se l’impresa produce, poi anche tutto il resto della città ne trae giovamento, per esempio i professionisti e le banche, che invece ora tendono a chiudere gli sportelli. Occorre che ciascuno faccia il proprio lavoro e si crei lavoro partendo dalla promozione della manifattura, perché quella italiana è famosa nel mondo non per le materie prime, di cui il paese non dispone, ma per l’abilità nel trasformare quelle che acquista. Quindi, se siamo eccellenti nella trasformazione, creiamo lavoro per tutti. Per questo è necessario trovare le condizioni affinché il lavoro ci sia e quindi occorre che si coordinino in tal senso una serie di attori, come la scuola, i rappresentanti sindacali, gli imprenditori e chi amministra questo Paese.