OCCORRE VALORIZZARE L’APPORTO DEI CONSULENTI DEL LAVORO

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consulente del lavoro, past governatore Lions

Mi dispiace, ma devo incominciare il mio intervento con una puntualizzazione estremamente negativa. Il materiale che avevo preparato l’anno scorso, prima del lockdown, per avere dei riferimenti da confrontare con le affermazioni del libro di Pietro Ichino, L’intelligenza del lavoro (Rizzoli), conteneva le stesse identiche questioni che ho sentito alcune settimane fa in un convegno di giovani imprenditori: tra le altre, c’era anche quella a proposito del collegamento tra scuola e lavoro e tra imprese di cui non è stato attuato nulla. L’unica legge operativa in materia di formazione è la legge sull’apprendistato, che è del 19 gennaio 1955, esattamente nove anni prima che cominciassi la mia attività professionale, nel 1964.

A cos’è servita la legge sull’apprendistato? Le modifiche che sono state effettuate sono valse ad ampliarne il periodo di applicazione: una volta l’apprendistato terminava a 18 anni, poi a 20 e poi a 25 e oggi siamo ormai arrivati a 35 anni, per consentire un minor pagamento di contributi o, peggio, per aumentare i testi didattici: a me fu offerto di fare il docente in questi corsi e rifiutai non perché non mi interessi insegnare, ma perché li considero una presa in giro. Se gli industriali che sono qui si facessero consegnare da un di[1]pendente il programma di un corso di apprendistato, credo che potrebbero dire: “Guardate, questi corsi li teniamo noi, e state tranquilli che imparerete molto di più”.

Io ho partecipato alla nascita della categoria dei consulenti del lavoro contribuendo alla stesura della legge n.12 del gennaio 1979. Quella legge è ancora operativa e non è da considerare obsoleta, mentre le nuove normative in materia di lavoro sono continuamente modificate e devono essere sistematicamente corrette, per[1]ché chi le dispone non ci consulta mai, neanche come categoria professionale. Negli altri paesi europei le leggi sono discusse e preparate a livello politico, ma, prima di essere emanate, sono controllate dai tecnici e dai professionisti, che hanno i termini effettivi delle questioni. Io non sono in grado di quantificare, per esempio, il numero di casse integrazioni Covid che abbia[1]mo trattato negli ultimi due anni, però siamo riusciti a prepararle perché in molte riunioni e in molte assemblee i dipendenti hanno mandato a casa i sindacalisti, che spesso si perdevano in cavilli. In un’azienda di 100 dipendenti in cui gli operai erano messi nelle condizioni di lavorare nonostante il lockdown, i sindacalisti non volevano firmare l’accordo se non garantivamo la cassa integrazione al 100 per cento. Ma le aziende dove trovano i soldi? Spetta a loro fare assistenzialismo? Gli imprenditori sono costretti a dare aiuti per fare contenti i vari parlamentari, i vari partiti e le varie forze sociali. In un documento preparato dall’Associazione Nazionale Ispettori di Vigilanza, che è la voce ufficiale di chi dà le disposizioni di legge, su 200 pagine di indicazioni intorno a cosa bisogna fare per ottenere le autorizzazioni al versa[1]mento dei contributi, ce ne sono alcune dedicate a varie esenzioni che vengono riconosciute per le cose più disparate: al settembre 2019 se ne contavano 27 e, con l’aggiunta di quelle per la gestione del Covid, le pagine raddoppiano. Non si manda avanti l’Italia, e le sue imprese, operando in questo modo.

E poi, parliamo dei professionisti. Noi abbiamo dovuto prendere posizione – e ve ne sarete accorti, perché sul “Sole 24 Ore” o su “Italia Oggi” avrete letto il grido di dolore con cui ufficialmente chiediamo di mettere a posto normative come quelle dell’INPS, da cui trarrebbe vantaggio sia chi deve erogare il servizio sia chi deve beneficiarne. Pensate a quanto ha speso l’INPS per la cassa integrazione straordinaria, quando si potevano usare formule alternative! Oppure, pensate a quel che mi domandano i clienti: “Ma come posso chiedere di fare lo straordinario a un mio lavoratore dipendente, che sarebbe anche disponibile? Avendo lo straordinario la tassazione marginale con il livello più alto, quando va bene guadagnerebbe come se facesse il lavoro ordinario”. Questo è un suicidio, è qualcosa di assurdo. Ma continuiamo a dire che bisogna cambiare e siamo sempre al punto di partenza: 1,2 milioni di posti di lavoro – distribuiti in tutti i settori e in tutti i livelli professionali – restano scoperti, come scrive Ichino, che parla di enormi giacimenti occupazionali a cui si potrebbe tranquillamente attingere.

Noi consulenti del lavoro non abbiamo soltanto clienti che hanno centinaia di dipendenti, perché il polso della situazione lo captiamo già con gli artigiani, con i piccoli industriali, con i commercianti che hanno 8, 10 o 15 dipendenti. In questi casi si vede veramente cosa vuol dire essere un imprenditore, quando il lavoratore è in grado di dialogare e di confrontarsi, e come siano tanti i modi per aiutare. Nello scorso anno alcuni clienti ave[1]vano il magone pensando ai propri di[1]pendenti e dicevano “Non ho il lavoro, non ho fatturato, cosa propongo a un dipendente da 2.500 euro se, quando è in cassa integrazione, ne prende 700 al mese?”. Questi sono gli argomenti che dovrebbero essere affrontati e verificati, per cui condivido al cento per cento quello che ha scritto Ichino. Quel che mi dispiace sottolineare è che a un anno dalla prima edizione del suo libro ho ritrovato esattamente le stesse richieste, gli stessi articoli sui quotidiani e le stesse carenze che erano state sottolineate e verificate.

Riguardo al tema della formazione e della scuola, cito il caso di mio suocero, il quale si era diplomato all’Istituto Aldini Valeriani e durante la guerra aveva lavorato nella Fabbrica Italiana Carburatori Weber. Lui diceva sempre che la sua gioia non era nel ricorda[1]re la sua carriera, ma gli anni in cui a scuola costruiva un cubo con la lima, come fosse un’opera d’arte. Questo esempio fa comprendere cosa significa prepararsi e studiare. E poi, per quale recondito motivo non favorire i migliori collaboratori in maniera con[1]creta e seria, come proponeva Bruno Conti? In Italia, nelle medie ufficiali pubblicate sulla base dei contributi versati, risulta che le retribuzioni dei nostri dipendenti sono costituite dal 90% di retribuzione fissa e dal 10% di quota variabile. E poi dicono che si va incontro ai dipendenti per premiarli! E come? Con 3000 euro? L’unica cifra che va in esenzione fiscale per il di[1]pendente in un anno, prevista solo se questo ha una retribuzione inferiore agli 80.000 euro? Che è come dire che, se ho un dipendente che guadagna 100.000 euro, per esempio un dirigente che ha fatto fare all’azienda passi avanti enormi, non posso premiarlo in modo che i soldi vadano a lui. Di quei 100.000 euro cosa rimane in tasca al dirigente? 48.000 euro. E poi, consideriamo le decine di migliaia di start-up di giovani in agricoltura: beneficiano di aiuti banali. I giovani devono avere i soldi o la famiglia che li aiuta, altri[1]menti le loro start-up non vanno assolutamente avanti.

L’Italia non può proseguire rasentando la discriminazione dei professionisti. Non è un problema economico, il problema è che le tariffe professionali dei consulenti del lavoro sono state fissate con un decreto ministeriale del 21 febbraio 2013, in cui si dice che, qualora non sia possibile determinare la tariffa in altro modo, questa sarà di 50 euro all’ora. Non entriamo nel merito, se 50 euro sono pochi o molti, ma mi chiedo come sia stato possibile emanare nel 2013 un titolo di legge in cui si parla di 50 euro orari, quando la tariffa professionale negli anni no[1]vanta era l’equivalente di 30 euro all’ora, espressi in lire. Questo vuol dire non tener conto della realtà e mettere fuori gioco l’attività dei professionisti in modo sistematico. Tali sono le considerazioni anche di importanti politici, letterati e persone che hanno creato ricchezza e creduto nel valore dello Stato e che hanno sempre detto che uno Stato privo di professionisti e dell’appoggio delle libere professioni non può garantire la democrazia.