IL LAVORO, L'INDUSTRIA, LA CITTÀ
Il libro di Pietro Ichino, dal titolo L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore (Rizzoli), mette in discussione il paradigma del lavoratore inteso come “parte debole” nei confronti dell’imprenditore che offre il lavoro. Che ne è, invece, dei cosiddetti giacimenti occupazionali inutilizzati – si chiede l’autore –, considerate le tante offerte di lavoro delle imprese, sempre più alla ricerca disperata di lavoratori specializzati? E propone un nuovo modo d’intendere il mercato del lavoro, in cui sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore, dando avvio a “un mercato dell’intrapresa, in cui diversi modelli di sindacalismo possano confrontarsi e competere”. Ma l’autore accenna anche all’esigenza di costruire il “diritto soggettivo alla formazione efficace”.
Constatare che il lavoratore non è “parte debole” ha moltissime implicazioni. Intanto comporta che il lavoro non sia più inteso come “rapporto sociale”, ovvero non più secondo la convenzione che vede due soggetti collaborare soltanto se uno è supposto “avere” e l’altro “non avere”, in modo che i piatti della bilancia si compensino. Come avviene, per esempio, secondo i modelli scolastico e formativo, in cui maestro e allievo si compenserebbero sulla base di una mancanza: avere il sapere è prerogativa del maestro e non averlo è prerogativa dell’allievo, considerato un vaso vuoto da riempire o una tabula rasa su cui scrivere. Oppure secondo il modello del dialogo platonico, come fra Menone e il suo schiavo, il quale risponderebbe correttamente alla domanda del padrone soltanto se quest’ultimo, a sua volta, la indirizza nel modo corretto. In altre parole, lo schiavo è tale perché è esclusa la sua intelligenza, è già considerato incapace, ovvero capace di rispondere, ma soltanto se guidato. Dunque, il maestro si pone come circonventore d’incapace. È esattamente questo il tanto elogiato modello del dialogo: è il dialogo fra sordi. Il modello del rapporto sociale è dunque il modello della sordità, fra chi sa o ha e chi non sa o non ha. Non è questo il business su cui si regge anche il modello della contrapposizione sociale?
Quale novità può prodursi con questa chiusura? Tra le implicazioni del rapporto sociale nel lavoro, nell’industria e nella città vi è l’idea di pena: lavorare sarebbe una pena. È sicuro che, se classificato incapace, il lavoratore sentirà a sua volta il lavoro come peso e come pena. Perché dovrebbe avere l’ambizione di riuscire nel compito che svolge? Accetterà di svolgerlo da incapace, subendo il lavoro, e solo per incassare il corrispettivo economico, quindi prescindendo dall’intelligenza. Il lavoro è così certificato come scambio sociale: accetto ordini perché mi pagano. Non è questo ciò che fa il mercenario? Ma corrisponde anche all’idea di prostituzione, in cui la soddisfazione è esclusa.
Un’altra implicazione del “rapporto sociale” è l’idea di moratoria, l’idea di rimando, che imperversa nelle scuole, nelle università e negli istituti di formazione attraverso la delega al maestro. Il principio della moratoria prospetta l’avvenire ideale, mai in atto, secondo cui in un giorno lontano colui che sarà intriso della formazione “inculcata” dal maestro potrà finalmente fiorire, perché sarà “pieno” del sapere necessario per fare. Questo “soggetto” – soggetto a un sapere prestabilito – viene fabbricato escludendo la sua logica particolare, i suoi sogni, i suoi racconti ovvero tutto ciò per cui ciascuno vive, progetta e costruisce. E, nell’immaginazione e nella credenza che questo “soggetto” ancora non sappia quali sono i suoi talenti, frotte di consulenti e professionisti campano sulla facoltà di condurlo al suo più antico sé, “perché possa conoscersi”.
Nella pratica del brainworking, avviata sul finire degli anni ottanta nei dispositivi del Movimento cifrematico, l’intervento è pragmatico, non è conoscitivo né formativo, procede dall’apertura intellettuale che ha come condizione la precisione e esige l’umiltà di cercare e di proseguire la strada che approda alla qualità assoluta, lavorando senza quell’idea di pena a cui consegue l’idea di ricatto e di riscatto. Ecco perché vivere in pena, farsi soggetto e “parte debole” è perdente.
La formazione non può essere guidata dall’idea di prestanza da raggiungere per avere, poi, il diritto di fare e il riconoscimento sociale, come riscatto dalla lunga attesa che caratterizza il ricatto sociale. Ma chi fa non ha tempo di badare al riconoscimento sociale, di guardarsi a partire dal giudizio dell’Altro rappresentato. Le acquisizioni giungono lungo il fare, non da un ideale accumulo di informazioni e di saperi, in un’attesa che rimanda il fare. Altro è il respiro di chi non smette di fare. E la tensione propria del fare non muore mai, nemmeno quando scatta la cosiddetta età della pensione. Ciascuno ha la chance dell’intelligenza secondo il fare che gli è proprio, instaurando dispositivi di parola in modo differente e vario. Ichino ha colto l’esigenza del lavoratore di non essere più ridotto in uno schema che lo vuole privo d’intelligenza, nell’arcaismo della divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, fra chi è sistemato ai piani alti e chi a quelli bassi. Ecco perché la trasformazione del secondo rinascimento è in atto e va in direzione della qualità.