L’INTELLIGENZA DEL LAVORO
Il tema principale del mio libro, L’intelligenza del lavoro (Rizzoli), sta in un rovesciamento di quello che è considerato il paradigma del mercato del lavoro. Questo è sempre stato considerato come un luogo dove soltanto l’imprenditore sceglie chi lavora in azienda; in realtà, in molte situazioni, sono i lavoratori a scegliersi gli imprenditori. La scelta dell’imprenditore è compiuta dai lavoratori quando i singoli decidono dove e in quale settore cercare lavoro, e, soprattutto, quando si muovono avendo l’informazione e la formazione che sono necessarie per poter conoscere le opportunità che il mercato riserva loro. Ma la scelta è compiuta talvolta anche collettivamente, per esempio dai lavoratori di un’impresa in crisi, da una regione depressa, oppure da una città, o da un intero paese.
La possibilità effettiva di vivere il mercato del lavoro in modo attivo e non solo in modo passivo deve essere data a tutti. L’articolo 4 della Costituzione riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto, che deve poter essere esercitato, dice la norma, secondo le proprie possibilità e la propria scelta. Ciò significa che il diritto di scegliersi il lavoro è un diritto costituzionale e, nella misura in cui nel nostro mercato del lavoro questo diritto non è realizzato per tutti, noi violiamo la nostra Costituzione.
Il modo per attuare questo diritto è assicurare alle persone le informazioni necessarie e la formazione efficace, discutendo cosa manca al nostro sistema della formazione in relazione alla domanda di lavoro. Ma è anche promuovere la più ampia pluralità di imprese in concorrenza tra loro: più imprenditori sono in concorrenza, maggiore è la possibilità di scelta: la concorrenza tra imprese è elemento costitutivo dell’effettività del diritto previsto dall’articolo 4 della Costituzione. C’è un altro punto di riflessione essenziale nel libro. Ciò che rende debole il lavoratore non è l’assenza di domanda, secondo l’idea tradizionale che l’offerta di lavoro sia maggiore della domanda. Questo schema era vero e tipico del mercato del lavoro originario all’indomani della rivoluzione industriale, quando l’impresa era la cattedrale in un deserto fatto di disoccupazione o sottoccupazione agricola. Da oltre un secolo non è più così. In realtà, la debolezza del lavoro non è causata dallo squilibrio tra domanda e offerta, ma dal difetto di informazione, di formazione mirata agli sbocchi esistenti e di assistenza alla mobilità.
Nella prima parte del libro fornisco una serie di dati che sono ovviamente limitati al 2020 (il libro è dell’anno scorso) in cui documento il fatto che le imprese non trovano i lavoratori di cui hanno bisogno. Consideriamo un articolo del “Sole 24 Ore”, secondo cui si apre un milione di posti di lavoro, di cui il 30%, però, resta vacante. Questo articolo è datato 2 febbraio 2020, il momento più duro della crisi più grave dell’ultimo secolo. Nel libro documento come questo sia vero anche indipendentemente dalla crisi, quando addirittura al nord (a Milano, a Reggio Emilia e anche a Bologna) c’erano 80 posti vacanti e non coperti ogni 100 disoccupati. Addirittura, c’era la punta di Vicenza con 110 posti scoperti ogni 100 disoccupati. Naturalmente, al sud è diverso, ma il dato del centro nord ci dice che c’è qualcosa di molto grave nel nostro mercato del lavoro, che attenta al diritto costituzionale che ho sopra citato.
Secondo il “Corriere della Sera Economia” del 28 giugno scorso, nella fase più acuta della crisi, la percentuale di difficoltà di reperimento dei lavoratori per varie categorie è stata altissima: nel momento della ripartenza delle imprese serve personale qualificato che non viene trovato. Mancano operai qualificati: meccanici, saldatori, fabbri, fonditori, falegnami e sarti. Il 20 giugno 2021 “Il Sole 24 Ore” pubblica la notizia secondo cui un’azienda su due non trova i candidati che cerca. Mentre il “Corriere della Sera” del 15 giugno informa che: “Molte aziende sono alla ricerca di figure tecniche e professionali che paiono introvabili in Italia. Le aziende cercano all’estero figure professionali che non trovano”. Siamo arrivati al punto di ingaggiare operai, per la filiera della meccatronica che si colloca lungo la Via Emilia, in Romania e in Cecoslovacchia, perché non abbiamo l’operaio tecnico che serve alle aziende (e che, a ben vedere, molto spesso è un diplomato di ITS, se non addirittura un laureato triennale). Nel “Corriere della Sera-Economia” del 28 giugno leggiamo: “Il superbonus del 110 per cento ha già messo in difficoltà le imprese edili che devono rifiutare i lavori perché non ci sono muratori qualificati”. Eppure l’edilizia era una delle colonne della nostra forza industriale. E ancora, estate 2021: “La carenza di manodopera frena la ripresa”. Stiamo uscendo dalla crisi, ma la ripresa è frenata dalla mancanza del personale di cui abbiamo bisogno. Concludiamo con il titolo della “Repubblica-Affari e Finanza” del 13 settembre: “Offresi lavoro disperatamente. L’autunno dei lavoratori scomparsi, le imprese cercano 400.000 persone e non le trovano”.
Allora, capite che questo problema dell’Italia di oggi, del 2021, nasce da un sistema di servizi al mercato del lavoro che non funziona. Non è un caso che l’ordinamento europeo – che nasce a metà degli anni cinquanta in un mercato evoluto e moderno – fondi il suo sistema di promozione del lavoro sul Fondo Sociale Europeo mirato a finanziare informazione, formazione e mobilità. Questo è un programma al passo con i tempi. L’Italia è invece rimasta all’idea ottocentesca che il lavoro vada protetto con l’espropriazione della facoltà negoziale dei lavoratori, con l’escludere proprio quella partecipazione del lavoratore come protagonista nel mercato al lavoro che invece dovrebbe essere oggetto della promozione da parte dell’ordinamento statale. Che si ottiene sul mercato del lavoro facendo funzionare i servizi di informazione, di orientamento scolastico e professionale, di assistenza alla mobilità, di formazione mirata agli sbocchi esistenti: per far sì che i lavoratori possano scegliere davvero, occorre la formazione di cui si conosce l’efficacia, di cui si misura il tasso di coerenza con gli sbocchi occupazionali effettivi.
Su questo terreno siamo molto indietro, ed è molto curioso che il sindacato nazionale incoraggi i lavoratori ad aggrapparsi con le unghie e con i denti a imprese che chiudono; come se la soluzione del problema fosse tenere in piedi strutture obsolete, magari facendo un caso nazionale dei 400 lavoratori della Whirpool di Napoli o di quelli della GKN di Firenze, quando ci sono centinaia di migliaia di posti di lavoro non marginali che hanno di fronte a sé il futuro e che potrebbero meglio valorizzare il lavoro delle persone, se solo riuscissimo a renderli accessibili attraverso una formazione efficace. Cosa non funziona? Per avere una formazione professionale efficace occorre misurare il tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi. È questo il dato che indica la qualità della formazione. Questo dato in Italia non viene rilevato, mentre nei paesi del centro e del nord Europa, invece, è disponibile. Cosa serve per misurare il tasso di coerenza? Occorre un’anagrafe della formazione professionale, esattamente come quella del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, per cui ogni corso finanziato con soldi pubblici deve fornire i dati sui propri allievi, che poi devono essere incrociati con quelli delle Comunicazioni obbligatorie al Ministero del Lavoro, ottenendo così il dato relativo a ciò che il ragazzo è arrivato a fare, cioè qual è stato l’esito della formazione impartita. E a quel punto il dato – che si chiama “tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocco occupazionale effettivo” – dovrebbe essere obbligatoriamente pubblicato nel sito del corso di formazione, in modo che ognuno possa sapere qual è la qualità di quel corso.
Questo dato sul tasso di coerenza, che è indispensabile per l’orientamento professionale, nei paesi dove il servizio funziona è disponibile, ed è la base dell’orientamento. Mentre noi in Italia abbiamo dei corsi di cui, quando si rileva a campione il tasso di coerenza, il tasso è del 15- 20%. Ci sono anche corsi eccellenti, beninteso, ma le persone interessate non possono fidarsi, proprio perché manca questo dato. Naturalmente, chi è addetto al servizio dovrebbe fornire informazioni attendibili circa i percorsi che conducono effettivamente verso la buona occupazione. Senonché, in Italia questo dato non è disponibile.
In Italia questo servizio non è mai stato veramente attivato perché qui viene privilegiato l’interesse degli addetti alla formazione rispetto all’interesse degli utenti. Se disponessimo di questo dato, metà della formazione che viene finanziata oggi con soldi pubblici dovrebbe essere chiusa. Se esistesse una mappatura dell’efficienza della formazione, gli assessori regionali non avrebbero mani libere, ma dovrebbero finanziare necessariamente la buona formazione e non quella scadente; oggi invece il sistema funziona prevalentemente su basi clientelari con la lottizzazione della distribuzione dei finanziamenti. In Italia si privilegiano gli addetti e si fa il danno di tutta una massa di persone, magari meno rappresentata nei luoghi in cui le decisioni si prendono, ma che rappresenta la parte maggiore del paese.
La globalizzazione amplia enormemente il campo nel quale gli imprenditori possono scegliere i propri dipendenti, quindi aumenta la concorrenza tra i lavoratori; ma amplia anche per i lavoratori di un’azienda in crisi o di una regione depressa la possibilità di attirare buoni piani industriali. La globalizzazione mette in concorrenza tutti gli imprenditori del mondo anche negli investimenti e, quindi, nella domanda di lavoro. Questo significa che dove c’è la capacità di organizzare l’ingaggio degli imprenditori – e, quindi, la coesione e il coordinamento tra rappresentanza sindacale e attività dei poteri costituiti – una collettività, un’azienda in crisi, una zona depressa, una città possono ingaggiare un imprenditore, possono diventare il soggetto che nel mercato del lavoro ingaggia l’imprenditore. Come è accaduto a metà degli anni ottanta a Sunderland, in una zona depressa della Scozia, dove i lavoratori, i sindacati e la collettività cittadina hanno spinto i dirigenti della Nissan a aprire uno stabilimento che quindici anni dopo è diventato lo stabilimento automobilistico più produttivo al mondo. Come a Sunderland, il nuovo mestiere per il sindacato dovrebbe essere quello di guidare i lavoratori nell’azione volta ad attrarre gli imprenditori, valutare i loro piani industriali e negoziare la scommessa comune con quello ritenuto migliore.
La verità è che la concorrenza tra gli imprenditori nel mercato del lavoro rafforza i lavoratori, perché poter scegliere tra più imprenditori vuol dire poter scegliere il meglio, ovvero chi valorizza di più il nostro lavoro. Ma per ottenere questo risultato occorrerebbe aprire di più il paese al meglio dell’imprenditoria mondiale, mentre in Italia ha sempre prevalso l’ostilità sia da destra sia da sinistra contro le multinazionali: da destra in nome dell’italianità dell’impresa, da sinistra perché si vede nella multinazionale un soggetto socialmente e politicamente pericoloso, che può attentare alla democrazia; l’ente rapace che si spolpa il paese e lascia soltanto le lische.
Questo atteggiamento nei confronti delle multinazionali è quello di chi non sa valutare la qualità dei piani industriali e non si sa rendere conto che dal meglio dell’imprenditoria mondiale noi possiamo trarre un grande vantaggio per la valorizzazione del nostro lavoro. Questa difesa bipartisan dell’”italianità” delle imprese, che vede destra e sinistra unite nel fare barricate contro l’investitore straniero, si è ripetuta nei decenni passati per l’Alfa Romeo di Arese, le Ferrovie, le Poste, Telecom Italia, Banca Antonveneta, Parmalat; si è ripetuta un’infinità di volte. Ogni volta c’era un bravo imprenditore che veniva tenuto fuori dai nostri confini in nome di un’italianità che in realtà, in questo caso, è un falso valore.
Negli Stati Uniti nessuno si cura se un vettore aereo è del Michigan o del Kansas o del Connecticut: l’importante è che faccia volare bene gli aerei e i prezzi siano bassi. Da noi, invece, insistiamo a versare denaro senza costrutto in quel buco nero senza fondo che è la compagnia di bandiera nazionale; e in questo modo non valorizziamo il lavoro dei nostri piloti e delle nostre hostess: se avessimo saputo ingaggiare Air-France KLM, accettandone il piano industriale, oggi saremmo come KLM parte di un grande vettore europeo capace di stare sui mercati mondiali.
Per concludere, in una situazione in cui mancano i canali di connessione tra domanda e offerta occorrono servizi di informazione, formazione mirata agli sbocchi effettivi di cui sia conoscibile il tasso di coerenza con gli sbocchi stessi e servizi capillari di orientamento professionale per giovani e adulti. Questo è il modo in cui si rendono accessibili i giacimenti occupazionali disponibili; e questo è il modo in cui si valorizza il lavoro, si dà forza al lavoratore. La forza del lavoro sta nel poter scegliere, nel poter essere protagonista nel mercato: questo è il messaggio che ho cercato di coltivare lungo tutta la mia vita di studio, e che ho cercato di condensare in questo libro.
La forza e la protezione del lavoratore sta nel rendere efficaci i servizi nel mercato. Non c’è protezione migliore per un lavoratore, che in una azienda sia trattato male o meno bene di quanto possibile, che potersene andare, magari sbattendo la porta, perché c’è un altro imprenditore che è pronto a valorizzare meglio il suo lavoro. Nessun ispettore, poliziotto, giudice, avvocato può rendere a un lavoratore un servizio migliore di questo, può proteggere meglio la sua dignità, libertà e benessere economico e non solo. Naturalmente, in questo ordine di idee, è essenziale avere molti imprenditori a disposizione, poter ingaggiare – individualmente o collettivamente – il meglio dell’imprenditoria mondiale: essenzialmente da questo dipende l’emancipazione del lavoro.