L’INCONTRO CASUALE, BASE DELLA CITTÀ
In qualità di autore di varie opere di diritto
amministrativo urbanistico (il suo Manuale di diritto urbanistico vanta ben
diciotto edizioni) che cosa può dirci dell’avvenire della città, anche alla
luce della recente pandemia? La pandemia, come una guerra, ha prodotto
danni economici giganteschi, distruggendo migliaia di imprese e posti di
lavoro. Perché la vita economica possa riprendere, occorrerebbero nuove idee,
nuove tecniche e nuove normative che togliessero gli innumerevoli vincoli in
materia urbanistica.
L’Italia ha avuto nel dopoguerra un boom straordinario. In
primo luogo perché le città erano state in gran parte distrutte dai
bombardamenti, poi perché non c’erano molti piani regolatori: si costruiva
quello che serviva e che dava maggiore vantaggio economico.
Mentre oggi i piani regolatori, le Sovrintendenze e la
magistratura frenano o bloccano i lavori per molti anni; nell’immediato
dopoguerra intere città sono state costruite senza tanti orpelli, con qualche
piccolo problema, ma con le forme più efficaci e utili, perché c’era il vuoto
normativo. C’erano quasi soltanto le strade, perché la strada è la base della
convivenza civile: potremmo benissimo edificare una città stabilendo solo il
tracciato delle strade, forse riuscirebbe meglio di tutte.
Anche le nostre città sono in viaggio. Da dove vengono,
dove vanno? Per la città del futuro tornerei alla città greco-romana, in
cui, fino al Medioevo e all’età moderna, gli edifici ospitavano sia
l’abitazione sia la bottega (dove si svolgevano le attività artigianali e
commerciali) con l’eccezione di alcuni palazzi nobiliari e pubblici.
Le nostre città, nella parte più recente, cioè quella
costruita tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, si rifanno
invece al modello anglosassone, che è nato con la scoperta della forza motrice
del carbone: il quantitativo enorme di carbone bruciato per far funzionare le
fabbriche comportava un forte inquinamento, per cui è incominciata la divisione
tra zone industriali, direzionali, residenziali, commerciali e così via. Questa
spartizione, come abbiamo visto, non esisteva nell’antichità, dove la parte
produttiva e quella abitativa s’integravano.
Un’altra ragione dell’affermazione del modello anglosassone
è di tipo culturale e trova le sue origini nel villaggio teutonico ben
descritto da Tacito: piccole casette singole, con il terreno e un piccolo
giardino tutto intorno, con esclusione totale sia delle fabbriche sia degli
edifici pubblici. Questa tipologia separa anzitutto le zone residenziali dalle
altre, per cui ogni zona esiste solo per il proprio uso specifico e i servizi privati
e pubblici sono separati da quelli residenziali. Proprio da questa situazione
nasce il pendolarismo, che prima era sconosciuto, con persone che abitano anche
a un’ora di viaggio dal posto di lavoro. Questo sistema anglosassone, cui
l’Italia si è adattata, ha praticamente sclerotizzato le nostre città a partire
dalla fine dell’Ottocento.
Solo in alcune gli uffici sono ancora collocati insieme alle
abitazioni, perché sono situati in edifici non recenti sparsamente collocati
nel contesto urbano.
Con la pandemia si è formata una tipologia di lavoro, il
telelavoro da casa e lo smart working. Cosa cambia per la città? Il
telelavoro non è specifico delle città moderne, è un evento forzato dalle
emergenze sanitarie. Le persone che si trovano a lavorare a casa, con i bambini
e le altre faccende domestiche, lavorano male e sono isolate. L’Italia e la sua
industria sarebbero, a mio avviso, danneggiate se il telelavoro persistesse.
Però, alcune delle grandi multinazionali, come l’Enel,
stanno dismettendo molti uffici in città, perché la maggioranza dei lavoratori
viene costretta a lavorare da casa. Questo comporta lo spopolamento di bar e
ristoranti che vivevano grazie a chi andava al lavoro.
Certo, e comporta anche la distruzione della città come
luogo di funzioni miste. Le funzioni devono essere miste, perché la gente che
cammina per strada deve mescolarsi: ci devono essere gli impiegati, gli operai
e coloro che svolgono varie attività. Se non c’è questa combinazione, non è una
vera città.
Si può dire che la città favorisca il viaggio, mentre lo
stare chiusi a casa lo ostacoli, malgrado la possibilità di collegarsi online? Il
viaggio, che è l’avventura nel percorso, non il punto di arrivo, comporta l’incontro
con chi fa cose diverse o con nuove realtà e un altro modo di affrontarle.
Ma la comunicazione è anche quella che si svolge online.
Perché questo tipo di comunicazione è diverso? Perché nella comunicazione
online non c’è casualità: comunichiamo con chi ci chiama o chi contattiamo
perché lo abbiamo voluto, magari per necessità lavorative. L’incontro non è questo,
l’incontro esige l’imprevisto, il fatto che io incontro casualmente per strada
un amico o un semplice conoscente e gli chiedo cosa sta facendo, per cui
acquisisco informazioni che mi forniscono elementi utili per altre situazioni.
Quel che vale è lo scambio di proposte e di idee, quel che
possiamo chiamare la comunicazione culturale.
Nella comunicazione tramite sistemi elettronici, la
comunicazione è regolata e disciplinata, mentre i più importanti scambi
culturali non possono essere gestiti tramite videochiamata.
La cultura nasce dal modo di vivere della gente che,
vivendo, produce cose inedite, che tu non sapevi nemmeno esistessero, cose che
incontri casualmente.
L’incontro casuale è la base della città e della sua cultura.