I GIOVANI IMPARANO CON IL LAVORO, NON CON LA TUTELA
Lei ha incominciato a lavorare, ancora minorenne, con il
papà nella vendita di ferro, nell’Italia degli anni Settanta, quando era
consuetudine fare esperienza di garzone nella bottega e quando la tutela era
sinonimo di acquisizione di un mestiere, non di protezione dai rischi del fare.
Questi rischi erano inevitabili per costruire una “vita dignitosa”. La dignità era
una questione di fare. E, facendo, intervengono la differenza e la varietà dell’esperienza…
Nella seconda metà degli anni Settanta eravamo più liberi di fare, purché
ci impegnassimo a produrre qualcosa di qualitativamente interessante.
C’era soprattutto l’esigenza d’imparare un mestiere. Oggi,
invece, sembra che la necessità sia quella di tutelarsi dall’eventuale danno
che potrebbe lamentare il cliente. Perciò, l’attenzione è rivolta alla tutela,
sia da parte del produttore sia da quella dell’acquirente. Questo approccio è diventato
la base della mentalità burocratica, che infatti è sempre tesa a limitare il
fare. Se devi “prendere a lavorare” – oggi diremmo: ad assumere – un
apprendista, per esempio, questo deve avere compiuto almeno tre anni di scuole
superiori. Per inserire mio figlio quattordicenne in azienda, ho dovuto prima
assicurargli la copertura INAIL, rilasciando una busta paga a valore zero come
collaboratore familiare, così poteva muoversi all’interno dell’azienda,
osservare e fare senza la preoccupazione di avere pesanti sanzioni nel caso in
cui fosse intervenuto un controllo ispettivo.
Poi, ho potuto emettere la regolare busta paga soltanto
quando aveva compiuto i diciassette anni, dopo la conclusione dei tre anni di
scuola superiore.
Io avevo dieci anni, invece, quando ho incominciato a
guidare il trattore per aiutare un amico che raccoglieva le patate nel campo.
Era un bel modo di incominciare a lavorare giocando. È così che poi intendi
l’impegno necessario per andare a lavorare nei campi dalle sei a mezzogiorno e
dalle cinque del pomeriggio alle otto della sera. Adesso, giustamente mandiamo
a scuola i nostri figli fino ai diciotto, ai ventidue o ai venticinque anni e
dobbiamo osservare tutte le prescrizioni che impediscono loro l’accesso al
lavoro prima che si maturino alcune condizioni. In questo modo, però, cambia
moltissimo l’approccio alla vita e al lavoro.
L’istruzione è importante, ma quando accettiamo di mandare a
scuola i figli fino ai venticinque anni e poi diamo loro anche due soldini,
quando vogliono uscire con gli amici alla sera, e regaliamo loro l’auto per
muoversi liberamente, poi succede che ce li ritroviamo a venticinque anni già
abituati a pretendere gratuitamente l’essenziale per vivere, perché fino a quel
momento hanno avuto il compito di studiare soltanto. Arrivati a questo punto, è
difficile dir loro che è ora di guadagnarsi da vivere, di assumere responsabilità
e fare sacrifici, di organizzarsi senza la paghetta di papà.
Se poi questo avviene quando i figli hanno raggiunto i
trent’anni, allora è quasi impossibile porre la questione.
Negli anni Sessanta, i figli dei titolari d’azienda erano
garzoni nell’impresa di famiglia, perché era naturale incominciare a lavorare
dalla gavetta.
Adesso, invece, abbiamo la preoccupazione di farli studiare
fino a trent’anni, fra lauree e master, e poi, quando sono infarciti di teoria,
vogliamo che non spazzino nemmeno in azienda, preferendo il loro impiego in
ufficio. In questo modo, però, diventa difficile che poi comprendano le
esigenze pratiche quotidiane dell’azienda, quindi, non saranno preparati quando
dovranno dare indicazioni risolutive ai collaboratori. Bisogna prima fare per
poi insegnare. Ecco perché si dice che “Chi non fa insegna”.
A questo si aggiunge la tendenza alla riduzione della
professionalità anche nelle scuole professionali. Un amico mi ha informato di
avere ricevuto materiale ferroso da smaltire da parte di una scuola marchigiana
di meccanica. Dovevano essere smaltiti acciai legati, acciai da bonifica e
altri ferrosi, che hanno differenti reazioni alla lavorazione a seconda della
composizione chimica – come tolleranze e durezze, ma anche come tempi e risultati
di lavorazione – per essere sostituiti da alluminio.
Ma è interessante che nelle scuole professionali siano
rinnovati i materiali su cui lavorare… Certamente, sarebbe bello se fosse così.
Ma non è accaduto questo, perché invece l’acciaio è stato sostituito con
l’alluminio, materiale più facile da lavorare. In passato, in questo tipo di scuole
veniva insegnato a lavorare su materiali con durezze e qualità diverse che, a
seconda del tipo di lavorazione, davano risultati diversi, perciò la formazione
era più completa. Prima, per esempio, gli studenti imparavano che la
lavorazione di un pezzo di acciaio richiedeva tempi più lunghi di quelli
impiegati per la lavorazione di un pezzo di alluminio, materiale più tenero.
Allora, qual è la qualità di una formazione professionale che limita la
differenza e la varietà delle lavorazioni, perché è finalizzata a ottenere
risultati in modo facile e in tempi brevi? È essenziale esercitarsi nella
differenza e nella varietà che interviene nell’esperienza… Chi parte dalla
pratica in ufficio, senza prima aver acquisito esperienza in magazzino, va poi
in crisi quando deve svolgere le problematiche che intervengono, per esempio,
nell’inserimento di un ordine, che necessita di sapere il tipo di lavorazione
richiesta dal cliente, per assicurargli anche i tempi di consegna. Di
conseguenza, è facile commettere errori, ma non serve individuare di chi sia la
colpa, perché è più importante capire come possiamo rimediare per risolvere il
problema. Sembra, invece, che la scuola serva a insegnare a non fare errori,
quindi a non fare, perché chi fa sbaglia. Quale impresa nasce e cresce senza
commettere errori? Errare disturba, ma implica anche procedere nel percorso,
perché errare è costruttivo.
Questo approccio all’errore favorisce la differenza
tra un’azienda e l’altra, tra un fornitore e l’altro, tra un dipendente e
l’altro. Ciascuno può constatarlo.