LA LINGUA DI MACHIAVELLI OLTRE LA NUOVA NORMALITÀ
L’aria leggera inebriava di iodio la carta e perfino il
legno della matita da disegno, mentre lievi folate del vento profumato di
primavera mediterranea solleticavano le lettere della tastiera del MacBook Air.
L’immagine del cielo terso che si apriva sul mare soleggiato del desktop
sembrava proseguire oltre il dispositivo, nel cielo immenso della piccola
marina salentina. Francesca era fortunata a poter lavorare dal tavolino della
terrazza, ombreggiata soltanto dalle altissime palme, che avevano salde radici
secolari nel giardino della villa. Altri suoi amici erano rimasti a Bologna,
chiusi nella zona rossa con il divieto di allontanarsi dalla residenza e
l’unico mare che potevano vedere era quello trasmesso dai video di YouTube.
Incredibili le opportunità che offre la tecnologia – aveva
pensato –, adesso ancora più essenziale per non smettere il ritmo di
appuntamenti e riunioni, durante le fasi più acute della pandemia da Covid-19.
Molti erano sbarcati dalle città per lavorare in remoto dai piccoli borghi e dalle
marine generosamente sparsi lungo il Belpaese. Da quando l’Italia era stata
dichiarata zona rossa, con la limitazione degli spostamenti e il divieto
assoluto di raggiungere altre regioni, la regola era diventata lavorare in
smart working per evitare il contagio da coronavirus, mentre il divieto di
assembramenti aveva reso pranzi e cene al ristorante un lontano ricordo, come
del resto le passeggiate per le vie dello shopping. Ma era stata davvero la
pandemia ad avere trasformato così il quotidiano? Se l’era chiesto spesso
Francesca, in quella primavera dai colori di pesco, approdata puntualmente al
secondo anno della pandemia.
Secondo l’unilingua, la lingua presunta comune, la lingua
dell’intesa ideale, l’emergenza sanitaria da Covid-19 deve favorire la
cosiddetta “nuova normalità”, segnando una sorta di divisione fra un prima e
un dopo. Prima era un tempo felice, perché la credenza nel potere
della scienza e lo sfruttamento della natura erano illimitati, e dopo,
colpevole di non avere rispettato il debito nei confronti del cosiddetto
ecosistema, l’uomo sarà costretto a limitarsi, a utilizzare soltanto i beni che
la natura gli ha offerto, magari con l’aiuto delle tecnologie, ma rigorosamente
finalizzate alla salvezza dell’ambiente e alla salute sociale.
Questo ipotetico stile di vita, che dà per superati il luogo
di lavoro, l’incontro, la festa, sembra più che una novità uno scampolo della
vecchia normalità, la riproposizione dei vecchi canoni puristi e radicalisti, secondo
cui l’infezione globale impone il sacrificio totale, la punizione egualitaria,
per lo spazio che l’uomo si sarebbe accaparrato attraverso la speculazione
scientifica e finanziaria.
Ancora una volta la ricerca e l’impresa, quindi, sono
colpite dal pregiudizio purista, che segue l’idea di esclusione e il principio
negazionista, e dal pregiudizio radicalista, che si attiene all’idea di
inclusione e al suo principio posizionista. Non a caso prospera nei mass e
social media quella che Leonardo da Vinci chiamava la lingua dei litiganti, fra
negazionisti della pandemia e posizionisti pro o contro i vaccini. In questo
modo la nuova normalità a schermi unificati e messaggi moltiplicati conferma il
sistema dell’unilingua.
Cosa c’è di nuovo nei canoni che riducono tutto all’unità
ideale, secondo la coppia dei litiganti? I Latini chiamavano norma la squadra
che serviva per misurare gli angoli retti. Oggi, la presunta nuova normalità
serve a misurare, e a stabilire, quali sono gli angoli retti della vita, ovvero
i nuovi canoni entro cui la vita deve svolgersi. La nuova normalità si doppia quindi
sullo standard della normalità, in cui il nuovo sarebbe tale rispetto a
qualcosa di già avvenuto, fra il prima e il dopo. Questa è la diversità,
misurata a partire dall’ideale di uguaglianza.
Tolta l’anomalia prospera la diversità, basata sempre su un
criterio comparativo fra due cose ridotte su uno stesso piano, fra due cose
ridotte a uno, rispetto alla coppia ideale. La nuova normalità sembra il
business del riduttivismo, la reductio ad unum per scartare ciò che non
è mai stato.
Ma la memoria come esperienza, la vita differente e varia,
con il suo nomadismo intellettuale, con il suo narcisismo non sottostà al
riduttivismo, che riduce all’unità l’anomalia, l’ineguale. Unificare il
narcisismo della parola non riesce, perché nessuno parla la propria lingua o la
lingua dell’Altro. In altre parole, qualcosa della lingua non cessa di disturbare
il canone della normalità, il riduttivismo contro l’invenzione e la novità. Lo
constata Machiavelli, quando scrive a Francesco Vettori: “Sogni e favole io
fingo”; e altrove, quando annota “fuora de’ discorsi et concetti che si fanno”,
“fuora d’ogni umana coniettura”. Il segretario fiorentino scrive legazioni,
lettere diplomatiche, indirizzate al papa, agli imperatori, ai principi e ai
signori delle corti d’Italia e d’Europa, senza l’oscillazione fra la fatalità e
il volontarismo tipici del riduttivismo.
In quale lingua scrive Machiavelli? Egli scrive nella lingua
del fare, la lingua che coglie la differenza e la varietà delle cose che si
fanno, la lingua dell’esperienza. La lingua dell’esperienza non è la lingua
tratta dai libri, non procede da un sapere precostituito. L’esperienza è
l’esperienza in atto di cui nessuno può dare consiglio.
La lingua del fare non è appannaggio di chi sarebbe presunto
detenere un sapere. La parola non è un affare professionale o confessionale.
Sarebbe il viaggio iniziatico con il Virgilio o con la Beatrice di turno,
conduttori attraverso i gironi e i cieli danteschi, a seconda dell’idea di pena
o di spirito che animano il soggetto, soggetto a una guida, a un navigatore che
indichi la strada. Ma la strada non è mai piana e non esclude ciò che disturba,
come dimostra l’esperienza dell’impresa. Ecco perché l’imprenditore diviene
tale quando incomincia a percorrere la strada commerciale, la strada in cui per
un equivoco, per uno sbaglio nella ricerca, trova qualcosa che differisce e
interviene una lingua che non è propria. Non è forse questo il bello del
mercato? Il segretario fiorentino scrive alle cancellerie d’Europa nella lingua
di chi è nell’occorrenza di stringere alleanze e di concludere. È una lingua che
non è propria, perché trova il verso e segue una piega delle cose che non sono
mai le stesse. È la lingua di chi non vede un prima e un dopo, è la lingua
dell’attuale, la lingua pragmatica. Machiavelli inventa la lingua
dell’industria della parola, lingua diplomatica perché si attiene alla piega
delle cose che si fanno, lingua dell’impresa.
E Machiavelli non scrive secondo la polemologia, secondo la
politica dei litiganti, dei riduttivisti.
Il segretario inventa la politica, la lingua dell’industria
della parola, non quella del politichese, esperta nell’incertezza e
nell’oscillazione, secondo cui tutto sembra finire, secondo cui è sempre il
tempo dell’ultimo tempo. Differente e varia è invece la lingua di chi rischia
l’impresa, di chi ha l’urgenza di trovare la piega per costruire, per
proseguire, per non vendere l’azienda, per cercare nuovi interlocutori, per
intraprendere, ancora, un’altra strada, la strada della parola, quella in cui
l’industria della parola trova la sua piega, la sua poesia, la sua impresa e la
sua politica.
La politica è la politica del tempo pragmatico, il tempo che
non finisce.
La nuova normalità è gravata dall’idea di sapere cosa
sarebbe finito, nella credenza che l’esperienza non valga nulla perché conta
ciò che sta scritto nel libro di riferimento.
Ma il cielo, il mare, le palme, i ristoranti, le
imprese e i viaggi non sono finiti per chi non si riduce e non scarta la
differenza e la varietà dell’esperienza pragmatica. E Francesca s’accorse che
quel tavolino era a Bologna, in mezzo al cantiere dei nuovi progetti e dei
nuovi programmi – senza prima e dopo, senza più nostalgie e arcaismi – in cui
avrebbe incontrato ancora nuovi interlocutori del suo viaggio pragmatico, il viaggio
che non smarrisce la direzione.