UNA VITA SENZA PARI
Protezione, tutela, difesa: queste tre parole sono le più
associate alla differenza e alla varietà, considerate sempre in pericolo o a
rischio. Per esempio, “rischio” di sfruttamento o di emarginazione per le
differenze sociali, “pericolo” di estinzione per le varietà di specie animali.
Ecco allora la parola d’ordine, sorta negli Stati Uniti e
rilanciata nel pianeta dai movimenti Mee too e Black lives matter:
stay woke, o semplicemente woke. Occorre stare svegli, vigilare,
“acquisire consapevolezza”, dunque stare dalla parte giusta, e non lasciare
impunita nessuna presunta discriminazione sociale, razziale, sessuale, di
genere, nessuna offesa all’ambiente e alla natura, ma anche alla propria
comunità, alla propria persona, addirittura alla propria suscettibilità. Questa
radicalizzazione del politicamente corretto è divenuta sempre più “un approccio
aggressivo e performativo alla politica progressista che può solo peggiorare le
cose” come ha dichiarato l’attivista Chloé Valdary. Mentre il filosofo
Bernard-Henri Lévy, nella “Régle du Jeu” del 15 marzo scorso, ha scritto: “il
pensiero sveglio è uno stratagemma della ragione biopolitica”, è “una nuova
illustrazione della sporca mancanza di cultura dei pensieri secondari che
stanno devastando i campus americani e, ora, quelli francesi”.
Non sfugge a Bernard-Henri Lévy che quelle che sembrano tesi
a sostegno delle differenze e delle minoranze sono in realtà violente
affermazioni delle identità e delle soggettività. Quello che il sociologo
Theodor Adorno chiamava “l’insaziabile principio di identità” sta divenendo,
secondo la formulazione del politologo Alain-Gerard Slama, nel suo libro La
regressione democratica (Spirali), “la dittatura delle minoranze”. Quando
la differenza e la varietà sono personalizzate – quando la differenza diviene
diversità e la variazione diventa variabile – e dunque devono essere tutelate e
protette, diventano identità, magari collettive, come le community, ma
pur sempre identità: identità di genere, di razza, di specie, sempre da
difendere, fino a giungere, come scrive Paolo Vandin in questo numero, al
razzismo dell’antirazzismo, al sessismo dell’antisessismo, al fascismo
dell’antifascismo.
Non è questa la vita differente e varia, che non può essere
sottoposta a nuovi identitarismi, sovranismi, protezionismi.
Ma è illusorio pensare che questi pregiudizi contro la
differenza e la varietà si dissolvano se viene mantenuta l’idea di uguale, su
cui essi si fondano.
L’idea di uguale non è mai stata messa in questione dal
discorso occidentale e dalla sua variante orientale, che anzi l’hanno
propugnata, con Aristotele e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino, con la umma coranica e il comunismo cinese. Questo uguale
sembra scalfito dalle diversità interne, dai livelli gerarchici, dalla
dialettica e dalle sue sintesi, che in realtà lo confermano: nell’uguale c’è
posto per l’universo e per il diverso, per il più uguale e per il meno uguale,
per il maggiore e per il minore, per le opposizioni e per le polarità e per i
loro gradi intermedi, come in ogni sistema debitore dell’idea di uguale.
L’idea di uguale sta alla base della relazione di
uguaglianza, che nel 1557 il matematico gallese Robert Recorde propose di
scrivere inserendo due segmenti paralleli tra due elementi da considerare
uguali, inventando così il segno uguale, per cui A=A. Il segno uguale sancirebbe
l’identità di sé a sé: A=A, ovvero A sarebbe identico a sé. Il principio di
uguaglianza serve per fondare il principio d’identità: A=A, ovvero A è A, uno è
uno, una rosa è una rosa, ogni elemento è uguale a sé.
Questo postulato del discorso occidentale elude la
differenza e la varietà, perché esige che la differenza sia tra due cose (se A
è A, sono già due A), dunque che ognuna resti identica a sé, che sia
“ogni-una”, che sia sottoposta all’idea di unità.
L’idea di unità comporta che l’uno differisca da un altro
uno, restando identico a sé. Quest’uno che non differisce è la base
dell’indifferenza generalizzata, che nessun movimento woke può
contrastare, perché, come l’indifferenza, ha radici nell’identità e nell’unità.
L’indifferenza in materia di umanità, l’indifferenza rispetto al diritto
dell’Altro e alla ragione dell’Altro, è sostenuta dall’affermazione
dell’identità propria e della propria comunità, comunità unita dall’uguaglianza
delle identità che la compongono. L’indifferenza esige che la differenza sia
sottomessa al principio di unità, dunque al principio di uguale: la differenza
sta tra uno e uno, è diversificazione legittimata cioè codificata, moralizzata
cioè regolamentata, motivata cioè corretta. Sono ammesse rose di tanti colori,
purché ogni rosa sia una rosa: questo l’imperativo della botanica sociale,
dell’orto degli indifferenti, in cui ogni cosa deve essere riportata all’unità
e l’unità deve moltiplicarsi, sotto l’idea di uguale sociale, in un sistema di
relazioni interdipendenti.
“La sporca mancanza di cultura”, di cui parlava Lévy, è
questa indifferenza.
Se non è intesa come folklore, localismo, identità (Kultur),
la cultura non può prescindere dalla differenza: in quanto invenzione, la
cultura dissipa l’idea di uguale e di identico, non è uni-versale, non
segue il verso dell’unità. L’invenzione viene dall’inidentità delle cose,
quando, contando e raccontando, per una svista o una cantonata, l’uno risulta
non identico a sé, differisce da sé, e una rosa non è una rosa. Questa la
trovata, una questione scientifica, cioè questione di divisione da sé (cfr. il
latino scio, divido), non una scoperta, con cui una comunità condivide
una conoscenza (cum-scio) nascosta dal velo di Maya. Se una rosa non è
una rosa, se l’uno non è uno, il sapere non è da rivelare preservandone
l’identità, ma è effetto di questa differenza, è il pleonasmo dell’insaputo, la
ricchezza di questa trovata incessante.
Se l’uno è uguale a uno, se le cose procedono dall’idea di
uguaglianza, l’idea di morte regna sovrana. Cosa potrebbe rendere uguale ogni
uno, ogni uomo? Cosa sarebbe il minimo comune denominatore degli umani? La
morte, come precisa la filosofia aristotelica. Il suo sillogismo pretende che
tutti gli umani siano mortali, dunque sottopone gli uomini alla funzione di morte,
la funzione umana.
Questa funzione di morte ha ognuno, e ogni cosa, come sua
variabile: l’uomo, dio, il popolo, l’arte, il pianeta terra. La variabile
cambia, ma la funzione di morte resta.
Così, non c’è variazione che non diventi variabile della funzione
di morte: sotto l’egida dell’uguaglianza, le cose possono variare, ma sono
gradi diversi rispetto alla funzione di morte. Il miglioramento, il
cambiamento, la mutazione, la gradualità, il più e il meno, la maggioranza e la
minoranza non rendono la vita varia, sono la riduzione, impossibile, della
variazione a variabile, come variabile dell’uno mortale, dell’uno identico a
sé. Se la vita è sottoposta alla funzione di uguale come funzione di morte, in
assenza della varietà e della differenza strutturali, non resta che
l’annotazione di Tancredi nel Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga
com’è, bisogna che tutto cambi”.
La diversità non è la differenza, il cambiamento non è la
varietà della vita: diversità e cambiamento propongono gradi diversi della funzione
di morte. La vita non procede dall’idea di uguaglianza attribuita all’unità,
non è un sistema; ciascuno vive perché, parlando, l’uno è preso in una funzione
e in una variazione, differisce e varia, non è uguale a sé, non è unitario, non
è indifferente né invariante. Nel suo riferimento ideale l’uguaglianza è sempre
mancante e difettosa: chi si pensa identico a sé non può che pensarsi mancante
e difettoso, compresso e depresso: così oscilla tra il più e il meno, cerca di
cambiare e non cambia mai, fino a sentirsi vittima, di altri o di sé. Parlando,
la funzione di uno non è funzione di morte, è differenza e varietà che non
hanno bisogno di protezione, tutela e difesa, perché non vengono meno, non sono
in pericolo, perché l’uno non è suscettibile, non si fa vittima, non è
minoranza, non è l’androgino mancato. Con l’uno che differisce da sé, la parola
non ha più bisogno di woke o di spirito guida.
Sotto l’idea di uguale, ogni cosa deve essere ridotta
all’uno, tutto si fa uno o l’uno si fa tutto, nell’unificazione del molteplice
e nella moltiplicazione dell’uno.
Tutto deve essere ricondotto all’unità e poi quest’uno deve
frammentarsi, fino all’annullamento. Questa procedura unificante – procedura di
riduzione all’uno, che dovrebbe applicarsi nella famiglia, nell’impresa, nella
politica – diventa una procedura della pena, perché è una procedura sotto
l’egida della funzione di morte, dunque una procedura della mortificazione
quotidiana, della pena di morte, della morte come pena. Che ne è della parola
libera, della ricerca libera, dell’impresa libera in questa società penofila,
cioè mortifera? Dalla Cina alla Russia, dalla Turchia all’Iran, i regimi
planetari, ma anche la provincia Italia, si appellano all’idea di uguaglianza e
dunque di unità per tentare di negare la differenza e la varietà, cercando di
impedire la parola e l’impresa libere per potere statalizzarle, monopolizzarle,
annullarle. Solo la ricerca e l’impresa libere, infatti, garantiscono la
varietà e la differenza pragmatiche, perché, come indicano le testimonianze
degli imprenditori in questo numero, l’impresa non può prescindere, nella sua
esperienza in ciascun giorno, dalla differenza e dalla varietà, basi
dell’invenzione e dell’arte indispensabili per la riuscita. In questo senso, la
ricerca e il fare, nell’impresa, sono il baluardo e l’humus non
ideologico o ecologico della differenza e della varietà. La vita differente e
varia è la vita della ricerca e dell’impresa, del fare e della scrittura, della
poesia e della politica senza l’idea di uguale. Solo per un regime totalitario
una rosa è una rosa.
Un modo per negare la differenza e la varietà è pensare che,
postulato l’uguale e l’identico, tutto possa differire e variare, in un
continuo cambiamento: cambiare vita, interessi, lavoro, partner, sesso, con un
perenne mutamento, per una vita a “geometria variabile”, in un’incessante
mutazione che, come indicano l’esoterismo e il taoismo, procede dal principio
dell’immutabile, dal sistema. Intendendo la lingua come sistema, il linguista
Ferdinand de Saussure può scrivere: “Nella lingua non ci sono se non
differenze”.
Nell’ambito del sistema, dell’idea di uguale, la funzione di
morte esige l’obbligo di differenziarsi e di diversificarsi: tutto si
relativizza, diventa intercambiabile, fino all’evaporazione, alla
spiritualizzazione.
Così, la differenza e la varietà diventano ideali, come se
dalla parola potessero essere tolti il corpo, l’ostacolo, la materia, in
un’alchimia del nulla.
Eppure, “chi mai potrà osservare l’imperativo della
mutazione? Nessuno è in grado di conoscere la sua variante nel processo della
parola”, scrive Armando Verdiglione nel libro Il gusto dell’onestà.
L’idea di uguale e di unità è un fantasma di padronanza. È
l’idea di potere padroneggiare la materia della parola, l’idea che la parola
esiga una materia inerte che la supporti, per consentire la significazione, la
corrispondenza del dire con la cosa, intesa come Cosa (das Ding)
concettuale, ontologica, contrapposta ai fenomeni, agli oggetti, alle parole.
Ma, nonostante la filosofia di Immanuel Kant e di Martin Heidegger o la teoria
psicanalitica di Jacques Lacan, la cosa non è il vuoto che fonda l’essere né il
reale imperscrutabile.
Nella parola, la cosa è la stessità, è la
proprietà linguistica della struttura, che ogni dottrina politica è impegnata a
convertire nell’unità. La stessa cosa, la cosa stessa: ciascuna
cosa trova nella stessità della cosa quanto risulta particolare e
specifico.
Come abolire la stessità dall’esperienza, dalla
ricerca e dall’impresa? Chi può padroneggiarla? La cosa, in quanto la stessa
cosa e la cosa stessa, è proprietà dell’esperienza, quindi della
struttura, è proprietà della ricerca e dell’industria. La stessità della
cosa è l’itinerario, da cui è impossibile prescindere, che è proprio di ciascuno;
in questo senso, è il narcisismo della vita, della vita senza più bisogno di
mutamenti o mutazione.
“Stesso”, in greco autόs, da cui autismo, la stessa
cosa, e automatismo, la cosa stessa. L’autismo non è patologico,
insiste sulla stessa cosa, verte sull’intoglibilità dell’ostacolo,
dell’oggetto nella parola. L’automatismo non è magico o ipnotico, insiste sulla
cosa stessa, rileva che nell’atto di parola il tempo è infinito e
eterno, senza linea e senza circolarità.
Ma questa stessità non è l’identità, non dipende
dall’idea di uguale o di unità, che mira a esorcizzare la stessità,
perché questa idea non può tollerare l’oggetto e il tempo, i quali non
ammettono l’indifferenza e l’invariante. Per questo la stessità non si
oppone alla differenza e alla varietà, che la esigono: differenza e varietà non
possono dipendere dall’idea di uno, dalla riduzione di tutto all’uno, all’idea
di relazione (l’idea di uguale è idea di relazione), al sistema delle relazioni.
La differenza e la varietà non sono relazionali, non
dipendono dal paragone, non sono differenza e varietà rispetto a qualcosa o
qualcuno, non dipendono da qualcosa o qualcuno. Solo così sono differenza e
varietà assolute, non relative, perché non riducibili all’unità e
all’uguaglianza, dunque non sono sottoposte alla pena, alla morte come pena,
alla funzione di morte come funzione di uguaglianza tra gli umani. La vita
differente e varia è la vita non penale e non penitenziaria, è la vita senza
più bisogno di tutela e protezione, è la vita senza pari. La vita in cui una
rosa non è una rosa.