IL MOLTEPLICE NELLA CURA E LA SFIDA DELLA PANDEMIA

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dirigente di struttura sanitaria, membro del direttivo dell’Associazione culturale Progetto Emilia Romagna

La pandemia di Covid-19, nel suo lungo procedere, sta cambiando moltissimi assetti politici, sociali, economici, relazionali, culturali del pianeta, con molte variazioni anche nelle prospettive lavorative. Probabilmente, tra alcuni anni considereremo questo momento uno degli snodi cruciali della storia, com’è accaduto con guerre, invasioni, migrazioni, crisi economiche e monetarie, cataclismi naturali, ma anche in seguito a scoperte scientifiche e alle loro applicazioni.
Tuttavia, nei secoli precedenti, sono rari gli storici che hanno conferito alle pandemie un’importanza simile a quella riconosciuta per gli eventi citati, pur descrivendone talvolta la portata, come ha fatto Tucidide nel suo libro Guerra del Peloponneso, e altrettanto raramente le hanno considerate passaggi epocali. Solamente in anni recenti la storiografia, con alcuni autori come Michel Foucault e i medievalisti Franco Cardini e Alessandro Barbero, tra gli altri, ne ha rilevato l’importanza.
Il paradigma è stato indubbiamente la peste del 1300, la cosiddetta “peste nera”, che, colpendo in modo indiscriminato l’Eurasia, ha sfiorato l’estinzione degli umani e ha rallentato di oltre un secolo l’affermazione di grandi civiltà come quella del Rinascimento in Italia e in Europa.
In materia di pandemie, la prima domanda da porsi riguarda l’intervento della medicina in occasione del loro manifestarsi. Dai resoconti degli storici coevi a ciascuna di esse, fino a quello dello storico bolognese Marco Poli, tale intervento risulta essere stato in ciascun caso molto deludente, compreso quello relativo all’epidemia detta “spagnola”, all’inizio del ventesimo secolo. Anzi, la pratica medica è stata colta quasi sempre di sorpresa, anche in occasione del Covid 19, pur avendo, oggi, acquisizioni e strumenti eccezionali a propria disposizione. È mancata, soprattutto, la percezione di un elemento fondamentale, che l’attuale pandemia ha rilevato in tutta la sua drammaticità: la velocità di mutazione dei microrganismi, e soprattutto dei virus, ancor più in conseguenza dei cosiddetti spillover, o salti di specie, che ne aumenta la contagiosità e la letalità. In assenza di farmaci veramente efficaci contro i virus, come lo sono gli antibiotici per i batteri, occorre avvalersi di farmaci di efficacia parziale purché somministrati in tempo, e l’attuale pandemia lo sta dimostrando.
Ma, soprattutto, ancora una volta occorre utilizzare i vaccini, presidio scoperto empiricamente nel XVII secolo da contadini circassi dell’Anatolia e perfezionato da Edward Jenner in Gran Bretagna. Anche nell’odierna occasione la velocità di mutazione dei virus obbligherà la ricerca medica e quella biologica a un impegno di aggiornamento costante del vaccino per mantenerne l’efficacia.
La questione posta dall’attuale pandemia non è tanto quella del rischio inerente alla cura, intoglibile da sempre dalla pratica medica, sia per i medici sia per chi è oggetto di cura, quanto il fatto che ne sono stati messi in discussione alcuni principi consolidatisi in questi ultimi decenni in occidente, connessi in gran parte alla cosiddetta “medicina delle prove di efficacia” (m.d.p.e.), fra cui quello dell’unicità e dell’esclusività della cura. Secondo la m.d.p.e. deve essere utilizzato preferenzialmente sempre il presidio risultante più efficace in queste prove, indipendentemente spesso dalla sua disponibilità, e dovendo rispettare comunque in ciascun caso le procedure e i controlli stabiliti. Questo tipo di medicina deve affidarsi a strutture grandi e centralizzate, sempre più specializzate, ma ha trovato il suo scacco nel corso delle epidemie, dove invece è più efficace la medicina del territorio in tutte le sue componenti: il distanziamento, la riduzione dei tempi d’attesa, l’applicazione di presidi immediati non nocivi, anche se non inseriti nei protocolli della m.d.p.e. La medicina del territorio non è retaggio di altre epoche ma attualmente è applicata anche in paesi avanzatissimi dell’oriente, compreso quanto concerne il campo sanitario, come il Giappone, la Corea del Sud, il Vietnam, la stessa Cina, dove tutto sembra avere avuto inizio. Sono paesi che, al netto di una minore patogenicità del virus originario rispetto alle varianti occidentali e di una maggiore irreggimentazione politica e culturale, stanno affrontando meglio la pandemia. La questione, in oriente come in occidente, investe indubbiamente la stessa formazione dei medici, e qui altre scienze, come la scienza della parola, possono dare un contributo importante. La cura “unica” è uno dei risvolti del pensiero unico e non può essere la base di un monismo che esclude l’Altro e il tempo pragmatico.
Se intervengono urgenza e occorrenza, l’Unico non si costituisce come il principio assoluto da cui far discendere qualità ed efficacia. Il molteplice e la molteplicità, nel processo intellettuale scientifico, sono intoglibili, implicano la novità e non possono divenire moltiplicatori dell’uno e unificatori del molteplice.
La molteplicità è pragmatica, e procede dall’apertura, non dalla chiusura delle questioni, comprese quelle avanzate dalla scienza. La molteplicità pragmatica sta nella forza e nell’efficacia del processo scientifico anche nelle sfide più difficili, come quella portata in questo periodo dal Covid 19.