L’IMPORTANZA DEL FERRO PER L’ECONOMIA ITALIANA

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amministratore unico di Maccagnani Ferro Srl, Budrio (BO)

La vostra azienda, Maccagnani Ferro, offre un network di servizi che vanno dalla vendita di materiale ferroso di ampia gamma e qualità, allo smaltimento dei rottami e alla carpenteria per gli adeguamenti sismici, garantita da aziende certificate. Il vostro lavoro è legato all’industria manifatturiera, che oggi non arriva agli onori delle cronache, in cui invece sembra prevalere l’economia digitale e l’e-commerce.
Ma il rilancio dell’economia italiana non può prescindere dal manifatturiero, e anche dal manifatturiero tradizionale...
Sono cresciuto camminando accanto a mio padre, a pane e ferro, per così dire, quando il ferro era sinonimo di ricchezza e prosperità per la comunità.
Per questo non ho mai pensato di avere concorrenti, ma colleghi e quando dico una cosa a un cliente è la verità. Preferisco perdere un ordine perché non riesco a consegnare nei tempi richiesti, piuttosto che perdere il cliente perché gli dico che una consegna è possibile, quando invece non è così. Il mio servizio ha un valore, il valore proprio dell’esperienza, ecco perché non ho impostato il mio lavoro sull’idea di concorrenza e sul prezzo più basso, come invece spesso avviene nella cosiddetta economia digitale.
Diventerebbe la battaglia tra poveri, perché il metallo ferroso è un prodotto povero che, però, proprio quest’anno ha costi più elevati, oltre a non essere di sicura reperibilità.
Cosa intende esattamente? Attualmente, nel mercato dei metalli ferrosi manca la materia prima.
Basti considerare, per esempio, che l’ex Ilva invece di 28 milioni di tonnellate oggi ne produce sei. La Cina, che ha registrato un più 2 per cento del PIL – mentre l’Europa un meno 10 – sta facendo man bassa di ferro in Europa e la materia prima che arriva dalla Cina è sottoposta ai dazi doganali, con un tasso del 17 per cento in più rispetto a prima. I politici italiani ed europei hanno fatto invadere il mercato dalle materie prime cinesi a prezzi bassissimi e i nostri centri di trasformazione sono stati costretti a chiudere o a ridurre sensibilmente le proprie dimensioni. In Italia, poi, l’assenza di politiche industriali ha reso antieconomica l’attività di produzione.
A questo si sono aggiunti i nuovi “dazi burocratici” per l’adeguamento alle normative sull’inquinamento. In Cina, quando le imprese sono in perdita, lo stato pareggia i conti e azzera i debiti. Questa è concorrenza sleale.
Intanto, il prezzo del ferro è aumentato del 40 per cento, perché non ce n’è abbastanza per soddisfare la domanda.
Se avessimo rilanciato l’ex Ilva e salvaguardato i nostri centri produttivi – quelli che abbiamo fatto chiudere otto anni fa, facendoci invadere dal prodotto cinese – forse oggi avremmo avuto la sicurezza di poter acquistare la materia prima e a prezzi più bassi.
Qual è la tendenza? Le tendenze per ora sono due: il rialzo dei prezzi e la difficoltà di reperire le materie prime che sono essenziali alle nostre industrie manifatturiere.
Io sono stato costretto a lasciare alcuni ordini perché, già a fine novembre 2020, i centri di trasformazione non avevano la certezza che a febbraio o a marzo avrei potuto ricevere il ferro richiesto, anche ordinandolo a prezzo aperto, cioè anche nel caso in cui il prezzo fosse aumentato rispetto alla data dell’ordine.
Vi è chi sostiene che le nuove normative ambientali siano un pretesto per imporre alla Cina il cambiamento degli standard di produzione. Ma, mentre in Europa abbiamo normative più stringenti anche in termini di diritti umani, in Cina il costo della produzione continuerà a essere più basso anche grazie al pullulare di campi di concentramento, laogai – in numero tuttora imprecisato –, da cui provengono diverse produzioni, ben oltre il rispetto dei minimi diritti sindacali, come ha ribadito il dissidente cinese Harry Wu nel suo libro Laogai. L’orrore cinese (Spirali)… Il governo cinese ha dichiarato in modo chiaro che, se fino ad ora hanno inquinato i paesi occidentali, adesso è il turno della Cina. Intanto, se si vuole rilanciare l’economia italiana è altrettanto chiaro che bisogna farlo attraverso la costruzione di nuove infrastrutture. Se le capita di attraversare il ponte sul Reno, lungo la SP 325 Val di Setta, a Sasso Marconi, noterà che dallo scorso 22 dicembre si può percorrere soltanto in senso unico. Per garantire l’altro senso di marcia ai camion è stato reso fruibile il centro della cittadina: non sta crollando il ponte, ma il marciapiede attiguo. Mia madre era una bambina quando il ponte è stato inaugurato, circa 70 anni fa e non so quante manutenzioni siano state effettuate da allora. Perché continuiamo a costruire anche oggi ponti in cemento armato, sapendo benissimo che non è più affidabile dopo cinquant’anni? Negli altri paesi i ponti sono costruiti in ferro, che, grazie ai trattamenti attuali, hanno una vita molto più lunga: il ferro è eterno e riciclabile all’infinito.
Se continuiamo a non fare manutenzione della rete viaria, come possiamo pensare di essere competitivi anche nella movimentazione delle merci?