NON TOGLIAMO IL DISTURBO
Il disturbo dell’umore, il disturbo del sonno, il disturbo
del pensiero, il disturbo del comportamento, il disturbo dell’apprendimento, il
disturbo della memoria, il disturbo del linguaggio, il disturbo
dell’attenzione, il disturbo alimentare.
Nulla di più condiviso, di più studiato e di più comune del
disturbo: ognuno ha il suo disturbo. In questa accezione, disturbo equivale a
disordine, cioè viene inteso come un limite dell’ordine sociale, dell’ordine
relazionale, dell’ordine del sistema. Ma, prima di tutto, di quel sistema
chiamato personalità, per cui nei trattati di psichiatria e di psicologia fa la
parte del leone il termine “disturbo della personalità”. Questo disordine può
essere inteso come disturbo in relazione a qualcosa: rispetto a un determinato
ambiente, rispetto allo stare insieme, rispetto a un modo corrente di parlare,
ci sono i “social disorders” e i “mental disorders”, i disturbi sociali e i disturbi
mentali.
In questo modo il disturbo sarebbe quel che limita
l’economia del discorso, per cui occorre che ci sia chi è deputato a mantenere
questa economia e a gestire questo disturbo. Ogni soggetto può essere
disturbato, tutti sono sospetti di disturbo. In particolare, il cognitivismo deve
compiere l’economia del disturbo e chiama questa economia “trattamento”.
Trattamento come economia del disturbo.
Oggi tocca al Covid-19 essere presentato come disturbo
totale e planetario. La gestione politica di questo virus lo volge in disturbo
sociale da contrastare con misure di salute pubblica e con un trattamento sanitario
obbligante e obbligatorio, in modo che ognuno si senta disturbato a fin di
bene. Si senta disturbato nei propri diritti, nella propria libertà, nei propri
rituali, che in realtà sono libertà obbligate, sono rituali sociali, a riprova
che ciascuna volontà presunta propria che verrebbe disturbata è in realtà
volontà dell’Altro.
Questo disturbo soggettivo fa parte del cerimoniale: ognuno
deve sentirsi disturbato perché questa sarebbe la via per prodursi come
soggetto, per supportare il cerimoniale dell’androgino, dell’unità, dell’uguaglianza,
del sistema.
In questo cerimoniale, ognuno ha il compito di divenire
androgino e, compiuto il cerimoniale, di prodursi come dáimon, attratto
dal nulla ideale, fino a dissolversi, fino a togliere se stesso come disturbo,
fino a togliere il disturbo. È un processo di annullamento, la ballata del
soggetto disturbato. Non a caso, Verdiglione scrive, nel libro Una vita di cifrematica,
di prossima pubblicazione: “Nulla mi disturba, nulla mi lascia desolato. Io non
punto a produrmi come dáimon una volta cessato il cerimoniale, non cerco
consolazione, non inseguo la dissolvenza”.
Questa formulazione, “nulla mi disturba”, non promuove
l’imperturbabilità, sia nell’accezione dell’atarassia stoica sia in quella
dello shantih o dell’ananda buddisti. Indica come l’esperienza
nelle aziende, nella scuola, nelle istituzioni, nelle famiglie, esiga che
s’instauri questo teorema: non c’è più disturbo soggettivo. Innanzi al disturbo
soggettivo c’è chi reagisce secondo la modalità dell’azione, e c’è chi reagisce
secondo la modalità dell’inazione, anche nei termini dello stare fermi o del
passo indietro, della quiescenza o del pensionamento.
In questi casi il disturbo è funzionale all’iniziazione,
proprio per divenire androgino attraverso lo spiritus rector, la funzione
correttiva, e poi per entrare, con la dissoluzione, a far parte del nulla ideale,
della società ideale, la società conformista, la società in nome del nulla.
La società ideale è la società conformista, la società
dell’uguale sociale, dell’ideale uguale e dell’uguale ideale, società inclusiva
e società esclusiva, quindi società segregativa.
In questa società ideale, retta dai suoi cerimoniali e dai
suoi algoritmi, l’esperienza e le sue proprietà – la ricerca e il fare – non
sono ammesse, sono intese come fastidio e disordine, cioè come rappresentazioni
del disturbo, perché l’esperienza non si basa sull’uguale, esige l’ineguale. Il
numero 76 (dicembre 2017) della “Città del secondo rinascimento” s’intitola L’anomalo:
il termine greco per dire ineguale è proprio anomalos.
L’iniziazione cerca l’eguale, è il percorso del soggetto dal
meno uguale al più uguale, finché, raggiunto idealmente l’uguale, non può che
dissolversi. Dissoluzione dello stato, dell’uomo, del pianeta.
L’idea d’iniziazione considera l’esperienza come la somma
delle conoscenze, dei fatti, dei ricordi da condividere per divenire esperto,
colui che conosce il sapere condiviso in modo mistico. La condivisione è
mistica. Occorreva il rinascimento, con Leonardo da Vinci e Niccolò
Machiavelli, per introdurre una nozione non mistica, non spirituale di
esperienza: l’esperienza originaria, in atto, mai conosciuta prima, mai
avvenuta prima, senza rimando al passato o al futuro. Esperienza della parola originaria,
non del discorso dell’Altro.
Scrive Leonardo nel Codice Atlantico: “Le mie cose
son più da esser tratte dalla sperienza che dall’altrui parola”.
Mentre Machiavelli nelle prime righe del Principe
parla di una combinazione tra “lunga esperienza delle cose moderne e una
continua lezione delle antique”: esperienza come modernità, la modernità come
modo dell’esperienza, come esperienza in atto, per acquisire la lezione delle
cose antiche. Da allora, il libro o la storia non sono più un riferimento, non valgono
come base del fondamentalismo.
La cifrematica, la scienza della parola, indica come la
lettura avvenga alla luce dell’attuale, anziché essere un modo per intendere
l’attuale. La lettura non conferma l’ordine del discorso, genealogico o archeologico
che sia. Dislessia: la lettura non riesce a compiere la decodifica del testo?
La lettura è impedita da un disturbo della memoria verbale? La memoria come
reminiscenza platonica o come rimemorazione fenomenologica fa fiasco: in quanto
esperienza in atto, la memoria non serve più a ricucire la presunta dicotomia celeste/terrestre,
passato/presente, latente/patente, inconscio/conscio. L’atto è arbitrario, non
mnemonico, se la memoria è memoria in atto.
Il disturbo e la lacuna della memoria sono patologici solo
se la memoria è ideale.
In altri termini, la memoria è negata soltanto nell’idea di
memoria. L’idea di memoria non è la memoria, è la memoria ideale, senza
l’esperienza; è la punta dell’economia della memoria, della sua funzionalizzazione.
La memoria ideale è funzionale alla correzione della struttura del linguaggio:
essa deve correggere, sotto l’idea di uguale, il disturbo del linguaggio come
disordine o disfunzione, come un presunto difetto di un’ideale facoltà metaforica
o metonimica. Sigmund Freud aveva aperto una breccia dimostrando, con il libro Come
intendere le afasie, l’impossibilità di localizzare questo cosiddetto
disturbo del linguaggio nel cervello, ma il linguista Roman Jakobson, nel libro
Saggi di linguistica generale, parla di due tipi di afasia, una come
disturbo della similarità, l’altra come disturbo della contiguità, considerando
deficit della facoltà metaforica la prima e deficit della facoltà metonimica la
seconda. In questo modo, che dipende dall’idea di uguale, è aperta la via per
la patologizzazione del linguaggio e della memoria, per la riduzione del
disturbo a incapacità, a deficit, a mancato accesso.
E, lungo questa traccia, Jacques Lacan resta nell’ideologia
psichiatrica, considerando stigma del soggetto psicotico l’incapacità di
metaforizzare.
Il soggetto disturbato? La memoria disturbata? La questione
dell’Alzheimer è questione linguistica. La memoria, nel suo esercizio
intellettuale, è disturbo, poiché si attiene all’esperienza della parola originaria,
e non a un riferimento ideale. La metafora, la metonimia, la catacresi sono
proprietà della struttura della sintassi, della frase, del pragma, sono usi
linguistici non finalizzati alla significazione, non sono espedienti per un uso
ideale della lingua. In questa accezione, il disturbo è proprietà della struttura
dell’atto di parola, e dunque della struttura della vita, che non può essere
ricondotta all’uguale sociale o grammaticale.
La struttura della parola come struttura della vita è
struttura della storia e struttura del fare, della ricerca e dell’impresa come
disturbo, che troppo spesso viene inteso come fastidio o disordine dagli
apparati ideologici, religiosi, giudiziari.
Ma poiché la struttura della vita è il disturbo originario,
non già il disturbo dell’ordine sociale, l’atto, segnatamente l’atto di parola,
non ha da divenire e non diverrà mai supporto dell’ordine o dell’alternativa
all’ordine. Le cose si dicono, dicendosi si fanno e facendosi si scrivono: questo
è il disturbo come proprietà della struttura della parola cui nessun apparato
può porre rimedio e che nessun apparato può usare come rimedio. Noi non
disturbiamo e non turbiamo. Non disturbiamo l’ordine costituito, non lo combattiamo.
Noi non siamo disturbati.
Il disturbo è proprietà strutturale originaria, esige il
processo di scrittura e di qualificazione, non l’esorcismo.
L’esperienza originaria è l’esperienza della parola, è la memoria
in atto, la memoria nel suo disturbo strutturale, la memoria nel suo sbaglio di
conto, nella sua svista, nel suo errore di calcolo. Che la memoria nel suo
gesto narrativo sia disturbo la indica come esperienza della parola. Mentre
l’esperienza senza la parola sarebbe l’esperienza cruciale, il punto di
passaggio, la forca caudina, l’altare di Agni, l’esperienza presa nel discorso dell’Altro
come discorso del nulla.
In quanto originaria, la nostra esperienza è narrativa, è
intessuta di sogno e di dimenticanza. È esperienza narcisistica, cioè è viaggio
narrativo. Il narcisismo non è l’insieme delle esperienze del soggetto, è il
viaggio senza iniziazione, con i suoi cifremi, cioè le proprietà del viaggio: in
questo viaggio della memoria non pesa nessun ricordo, nessun precetto misterico.
La memoria come disturbo non pesa. A ciascuna esperienza la sua lingua.
La lingua dell’esperienza come disturbo, la lingua come
l’esperienza in cui il disturbo non è assunto né criminalizzato è la lingua
dell’anomalia, la lingua del conto, del racconto, la lingua del progetto e del
programma. Questa lingua disturba la pianificazione, disturba la comodità, al
punto che un esercito di specialisti è pronto per appianarne le difficoltà, le improprietà,
gli inciampi. Invano. L’imperativo “non disturbare” è ideale, la memoria non
sottostà a nessun imperativo.
“Io dico”, “io scrivo”, “io viaggio”, o anche “io non dico”,
“io non scrivo”, “io non viaggio” sono enunciazioni, non sono cogiti, non sono
sistematiche di pensiero che fondano la soggettività normale o patologica. Sono
asterischi, sono disturbi che non evitano di volgersi in disdicenza, (la Versagung
freudiana, maltradotta con “frustrazione”), in discrittura (che viene chiamata
disgrafia), in dislettura (che viene ridotta a dislessia). Questo dis
non è negazione della presunta normalità, è strutturale.
Questi disturbi strutturali dell’atto di parola sono i
disturbi del ritmo, sono i disturbi essenziali al ritmo: disturbi linguistici, pulsionali,
nella loro intensità, nella loro esigenza narrativa. Senza i disturbi, il
viaggio è il viaggio di ritorno.
La mitologia psichiatrica non tollera i disturbi perché non
tollera il ritmo e non tollera il dispositivo del viaggio. Viene imposto così
l’imperativo della memoria, per evitare lo sbaglio, l’equivoco, la
sbadataggine, la cantonata. Ma l’imperativo della memoria non riesce a
cancellare la memoria come esperienza in atto, la memoria del viaggio.
In quanto strutturale al dispositivo del viaggio, il
disturbo, nella sua narrazione, si scrive e giunge all’approdo, che non è il télos
(la finalità, la circolarità), ma l’approdo alla qualità, al valore, al
capitale intellettuale. Rivolgendosi alla qualità, il disturbo è
rivoluzionario, è la struttura del viaggio, del percorso e del cammino. Per il
disturbo, l’esperienza è rivoluzionaria, la memoria è rivoluzionaria. La rivoluzione
è pulsionale, non sociale.
Contro questa rivoluzione della parola, l’umanesimo e la sua
variante, il transumanesimo, propongono la mnemomacchina e la mnemoteccnica.
Ma, in quanto si rivolge al valore, al capitale, il disturbo è strutturale,
dunque è costituito dalla tecnica come arte e insegnamento e dalla macchina
come invenzione e formazione.
Arte e invenzione della memoria, che si combinano
nell’industria come struttura, con la sua impresa, la sua poesia, la sua
politica. Per questo l’arte e l’invenzione, la tecnica e la macchina non sono
tollerate, in nome dell’uguale sociale, dagli arcaismi del sindacalismo e
dell’ambientalismo: in virtù dell’arte e dell’invenzione, della tecnica e della
macchina, il disturbo si scrive, si qualifica e si cifra. Nessuna riuscita senza
questa scrittura della memoria come scrittura dell’esperienza, che, in quanto
scrittura dell’attuale (non del presente), è scrittura dell’avvenire. La
ricerca è proprietà della memoria come sintassi e come frase, l’impresa è
proprietà della memoria come industria. La memoria: la struttura, il disturbo,
nel suo principio. A ciascuno la sua industria. Il principio della vita è il
principio della memoria, principio del disturbo.