NON SOLO COVID. LE NUOVE SFIDE DELL’AREA MEDICA
Ho iniziato a lavorare in casa di cura nel 2003, svolgendo
alcuni turni in pronto soccorso, in attesa d’iscrivermi alla scuola di
specializzazione.
Nel 2012 mi sono specializzata in cardiologia e di seguito
ho iniziato a lavorare come specialista nell’area di cardiologia e nella
riabilitazione cardiologica. Nel 2018 mi si è presentata l’opportunità di
divenire responsabile dell’unità di pronto soccorso. Quindi, fino a settembre 2020,
ho lasciato temporaneamente l’area medica per lavorare in pronto soccorso, dove
ho acquisito un’importante esperienza, non soltanto per l’aspetto strettamente
medico, ma anche per il ruolo di dirigenza.
Da settembre di quest’anno è stata nominata responsabile
dell’area medica… Il primo giorno del mio nuovo ruolo mi sono trovata a
gestire la situazione di un focolaio interno di dimensioni piuttosto
consistenti. Si è trattato della prima volta nella nostra casa di cura, nonostante
di Covid-19 si parlasse già da febbraio. Ci siamo trovati a trattare casi che
non ci saremmo aspettati. È stato stravolto il reparto, in particolare tutte le
dinamiche lavorative, sia per gli infermieri sia per i medici, e abbiamo dovuto
adottare un approccio completamente differente rispetto a quello cui eravamo abituati.
Non posso dire che ora le cose si siano risolte, è un periodo difficile, la
pandemia ha cambiato tutti i nostri modi di pensare, di ragionare, di
relazionarci al paziente e, soprattutto, ha cambiato le nostre priorità, sia da
un punto di vista organizzativo sia da quello delle nostre abitudini e delle
nostre consuetudini.
Cosa ci racconta della storia della Casa di cura? La
Casa di cura è stata fondata da mio nonno, che era medico. Successivamente, sono
subentrati i suoi figli, a loro volta medici anche loro, come mio padre e mio
zio. Chi non era medico ha comunque svolto una funzione amministrativa, perché
questa è stata un’azienda a conduzione familiare. Negli anni, l’attività si è ingrandita
a livello regionale e sono intervenuti altri meccanismi, quindi alla gestione
familiare è subentrata una vera e propria società costituita da un gruppo. Ciò
non toglie che tutti nella famiglia abbiamo sempre lavorato per l’azienda.
Cosa può dirci del ruolo che ha l’ospedale di Porto Viro
per i pazienti cardiologici? Pur essendo una piccola realtà perché, comunque,
i posti letto non sono tantissimi, rimane un posto strategico importante dal
punto di vista geografico, perché sappiamo che il nostro territorio è estremamente
vasto, anche se la densità della popolazione è bassa. Ma anche perché la popolazione
è anziana, e composta da varie tipologie, non soltanto quella rurale. La
cardiologia, a Porto Viro, è nata con il dottor Roberto Fiorencis, anch’egli
cardiologo, primario storico dell’area medica di questa struttura: lo ricordo
come mio maestro, tra l’altro, una bravissima persona. Ebbe l’intuizione di
rendere fruibili i servizi ubicati presso l’Ospedale di Rovigo, dove tuttora si
trovano, attraverso una partnership pubblico-privato in cui i pazienti affetti
da patologie coronariche, in particolare da cardiopatie ischemiche, potessero
usufruire delle strutture dell’area emodinamica dell’Ospedale di Rovigo, pur rimanendo
ricoverati a Porto Viro.
Questo anche per non sovraffollare l’ospedale, dove peraltro
la disponibilità di posti letto non è elevata.
L’altra sua grande intuizione è stata quella di coltivare
l’elettrofisiologia.
Da allora sono stati impiantati i primi pace-maker. Con la
collaborazione di un aritmologo dell’Ospedale di Peschiera, il dottor Antonio
Fusco, abbiamo incominciato a effettuare interventi più complessi, passando dai
pace-maker temporanei o monocamerali a quelli biventricolari, ai defibrillatori
e a tutto quanto fa parte dell’elettrofisiologia cardiologica, come gli studi
elettrofisiologici e le ablazioni nelle tachicardie nodali. La nostra
cardiologia può essere considerata multisettoriale.
Qual è la tipologia dei ricoverati nell’area medica,
compresa la lungodegenza? All’area medica afferiscono sia pazienti di
medicina in senso stretto sia pazienti geriatrici. Molte persone che giungono
in questo settore provengono da aree lontane, non monitorate direttamente da
noi e presentano a volte patologie complesse, che richiedono molta competenza.
Nel momento in cui ci accorgiamo che il paziente necessita
di un’altra specialità ci rivolgiamo al centro hub di riferimento (Rovigo) o a
Padova o a Verona, a seconda del grado di complessità del paziente.
È da sottolineare che spesso si arriva alla diagnosi e alla
procedura migliore per la salute del paziente confrontando le esperienze e i
punti di vista di diversi specialisti. Davanti a un paziente, quindi, occorre
porsi domande, ma non è detto che chi pone la domanda sia lo stesso che poi dà
la risposta. Parlando tra colleghi, scambiandoci valutazioni, ipotesi e punti
di vista forniti da medici di specialità differenti spesso si risolvono i
problemi del paziente, che va inquadrato, il più delle volte, secondo tale
molteplicità, in quanto è estremamente raro che il problema sia riconducibile a
una sola patologia.