IMPRESA E LIBERTÀ
Perché nasce un’impresa? Si diviene imprenditori per
inseguire un proprio sogno, un sogno che è anche di libertà, libertà di
esprimersi, libertà di gestire gli orari e gli spostamenti e, anche se questo
certamente vorrà dire più tempo da dedicare all’impresa, quello sarà un tempo
“mio”, non dettato dal marcatempo, dalle regole o dalle consuetudini. Il
divenire imprenditore contribuisce a trasformare il tempo di lavoro in tempo di
vita: non ci sarà più alcuna barriera tra il tempo dedicato all’impresa e
quello dedicato ad altro. Sfugge quindi all’idea di fine, a un’idea di sufficienza,
a un’idea di settore, di mansione. Quello che otterrà sarà l’integrazione del
tempo del lavoro nel tempo della vita.
Un giorno, più di vent’anni fa, un caro amico mi pose una
questione che forse voleva essere un invito a riconsiderare le troppe ore che
trascorrevo in azienda: “Oh, Paolo, ma tu vivi per lavorare o lavori per
vivere?”.
Sul momento non seppi cosa rispondere, capivo che la
questione era mal posta, ma non riuscii a venirne fuori.
Qualche tempo dopo, la risposta che avrei dovuto dare mi fu
chiara: “Caro amico, la tua domanda si basa su un presupposto che non posso accettare,
quello della fine: la fine del tempo, del tempo di vita, del tempo di lavoro,
del tempo del gioco. Compartimenti stagni che ci costruiamo noi, nella nostra
testa. Io vivo, vivo facendo cose, lavorando, giocando, studiando, ridendo,
piangendo, potrei dire che vivo nel gerundio.
Poi so ancora sognare: sogno di fare, di raggiungere, di
sapere, di donare, di prendere. Potrei dire che sogno nell’infinito”. Vivo nel
gerundio e sogno nell’infinito.
Divenendo imprenditore, ho sconfitto l’idea di fine e ho
conquistato la libertà di vivere il mio tempo in modo completo, lasciando che sia
scandito dal fare, dalle cose che si fanno, piuttosto che dal susseguirsi dei
minuti e delle ore che costituiscono contenitori da riempire: il contenitore
del lavoro, quello dello svago, quello della formazione, ecc. Divenire
imprenditore mi ha reso libero di scegliere, scegliere il contesto, il perché,
cioè la vision, il cosa, cioè la mission, e anche il come, cioè i
valori, i paletti da rispettare, da applicare, perché la mission non è a
ogni costo, è nel rispetto dei valori propri e dell’altro o, se volete, degli stakeholder.
A questo punto mi pongo però un quesito: ma, allora, se
divenire imprenditore mi ha reso libero, da dipendente non potevo esserlo? Perché
non mi sentivo libero? Un dipendente non può essere libero? Non può godere
della stessa libertà? Credo di no: chi è dipendente, da qualsiasi cosa dipenda,
non può essere libero. È proprio nel concetto, nella definizione stessa di
dipendente.
E in questo colgo due questioni: una di carattere culturale,
risolvibile, derivante dall’idea e dall’atteggiamento di segmentazione del
proprio tempo di vita che viene diviso tra tempo di lavoro, nel quale non sono
libero, un tempo che ho venduto a qualcun altro, e tempo di vita nel quale
posso fare ciò che voglio o quantomeno operare delle scelte.
L’altra questione ha a che fare con la possibilità di
scegliere non solo il lavoro, scelta che magari è stata più o meno indirizzata
dal mio percorso di studi e di vita, ma anche dove svolgerlo. Se non ho
possibilità di scelta, se sono in pratica costretto a lavorare in quel solo
posto, con quel solo imprenditore, allora, difficilmente potrò considerarmi
libero. Sarò dipendente: il mio sostentamento, la mia retribuzione, il
soddisfacimento dei miei bisogni dipenderanno da quel posto, da
quell’incarico, da quell’imprenditore, privato o pubblico che sia.
Il lavoratore è libero se esiste per lui l’opportunità di
cambiare azienda, cioè se, di fatto, non è costretto, dalla mancanza di
alternative, ad accettare quell’unica opportunità d’impiego.
Per fare questo, per ottenere questa libertà, il lavoratore
deve prestare attenzione, curare il proprio capitale intellettuale; deve farsi
imprenditore di se stesso, assicurarsi di essere in grado di cogliere,
all’occorrenza, le opportunità.
In attesa che, nel giorno del mai dell’anno del poi, la
politica e magari le organizzazioni sindacali s’indirizzino verso la
valorizzazione e la difesa della persona e si concretizzino iniziative e
strumenti volti, da una parte, a individuare per tempo le necessità delle
imprese e la loro possibile evoluzione, in modo da potere indirizzare in tal
senso la formazione, la preparazione dei giovani e, dall’altra, s’introducano
strumenti atti alla riqualificazione del personale, strumenti che realmente si
affianchino a quelli di sostegno al reddito per fare in modo che coloro i quali
perdono il posto di lavoro possano riqualificarsi e reinserirsi.
Allora, nell’attesa che tutto questo avvenga, magari grazie
ai navigator, è bene che il lavoratore si preoccupi di procurarsele da
solo le alternative che gli assicurano la libertà di cambiare azienda. Dico “da
solo”, ma in realtà non è solo, anche l’azienda ha interesse a mantenere le
competenze del proprio personale, allineate con le aspettative e le necessità
imposte dal mercato. Ne va della qualità del servizio/prodotto e anche della produttività
aziendale. Bisogna che il lavoratore faccia in modo di mantenere le proprie
competenze allineate con le esigenze delle industrie del suo territorio di
riferimento, la cui ampiezza dipende anche dalla disponibilità della persona a trasferirsi.
Ma quale trasferimento? Qui siamo a Modena, in Emilia Romagna: Motor Valley,
distretto ceramico, automazione industriale, packaging, biomedicale,
alimentare, abbigliamento. Possiamo affermare che le opportunità d’impiego, pur
in una situazione di mercato non brillante, non mancano, anzi, spesso le
industrie non riescono a reperire persone con le competenze necessarie a
svolgere determinate funzioni. E, ancora una volta, si avverte la mancanza di
strumenti, di dispositivi che aiutino a mettere in connessione persone, competenze
e imprese, come ha analizzato ampiamente Pietro Ichino nel suo libro L’intelligenza
del lavoro (Rizzoli).
Il lavoratore deve avere consapevolezza della propria
condizione nei confronti delle esigenze delle richieste del mercato del lavoro,
deve prestare attenzione a non finire fuori mercato, per competenze o per
richieste che non possono trovare corrispondenza in determinate condizioni e
situazioni.
Deve inoltre considerare che le competenze sono soggette a obsolescenza,
invecchiano, alcune più di altre, e che gli sviluppi e le applicazioni delle
cosiddette tecnologie abilitanti, quali la digitalizzazione dei processi, Internet
of things, intelligenza artificiale, blockchain, se affrontate in modo non
adeguato, rischiano di trasformare una platea molto nutrita di lavoratori negli
analfabeti funzionali dei prossimi anni e decenni. Non aggiornarsi,
accontentarsi, arrendersi a un’idea di fine – fine turno, fine giornata, fine
del mio compito – non equivale a stare fermi, equivale a prendere l’ascensore
sociale, ma nella direzione sbagliata, quella che porta ai piani bassi, ai
lavori meno nobili, meno remunerativi, alla dipendenza dall’assistenzialismo di
stato quando non a essere vittime di sfruttamento da parte di imprenditori con
scarsi scrupoli. Altro che libertà. Senza consapevolezza non può esserci libertà.
È una questione culturale che coinvolge anche l’imprenditore che certamente
deve fare la sua parte, mettendo a disposizione percorsi di formazione e aggiornamento,
ma se non c’è la consapevolezza da parte del lavoratore, se non c’è una
corretta valutazione del proprio potenziale, del proprio posizionamento, sarà inutile,
non si riuscirà a instaurare quel meccanismo, quel dispositivo di formazione
continua che non può essere totalmente delegato ad attività progettate e
proposte dall’azienda senza l’effettiva, convinta, necessaria, partecipazione
del lavoratore.
In conclusione, per essere liberi occorre divenire
imprenditori, imprenditori di se stessi. Occorre contare sulla propria industria,
sulla propria capacità, curarla, svilupparla, non delegare ad altri la
direzione del proprio itinerario, nella convinzione che si tratti di delegare
solo il tempo di lavoro e che la vita sia un’altra cosa, dove poi faccio quel
che mi pare. Non è così. Non si può delegare ad altri, azienda o imprenditore,
il nostro futuro. La funzione d’imprenditore, quand’anche imprenditore di se
stesso, non è delegabile. Questa delega conduce alla privazione della libertà.
Ma se il lavoratore è imprenditore di se stesso e lavora
nella mia azienda, posso stare certo che la sua è una scelta libera, lo fa
perché gli piace, perché concorre alla realizzazione del suo sogno, dei suoi
bisogni, alla crescita della propria competenza, della propria cultura, e nel
suo agire contribuirà a rendere l’azienda non solo più produttiva, ma anche un
posto migliore in cui vivere, lavorando, interagendo, ridendo, soffrendo, aiutando,
chiedendo, ascoltando. E, anche in questo, e non solo nei seppur importanti aspetti
retributivi, troverà la sua ragione di essere e, nel nostro caso, insieme a me
e a tutti i collaboratori, essere noi, TEC Eurolab.