L’INCONTRO CHE GIOVA AL CALCIO
Tra le specialità mediche che in questi anni si stanno
trasformando come pratica, vi è indubbiamente quella del radiologo. Il rapporto
non può più essere impersonale, senza ascolto, senza parola, mediato soltanto da
un’immagine, senza incontro con il paziente, che orienta la nostra azione e la
nostra ricerca. Questo è particolarmente vero nell’analisi dei casi di osteoporosi,
di cui mi occupo molto in questo periodo e di cui do volentieri alcune
risultanze. Le ossa contengono il 99 per cento del calcio del nostro organismo
sotto forma di sali minerali fissati a cellule e a proteine collagene. Il
tessuto osseo si rinnova tutta la vita e, a contatto con i vasi sanguigni,
presenta una struttura spugnosa a maglie ampie e regolari per facilitare
l’assunzione del calcio e degli altri nutrienti (le vertebre sono ossa spugnose
per eccellenza).
È essenziale mantenere in equilibrio l’ingresso del calcio
nell’organismo, la sua distribuzione negli organi e la regolare eliminazione
urinaria.
L’assorbimento del calcio introdotto con la dieta avviene
nell’intestino tenue sotto controllo ormonale ed è facilitato dalle proteine,
dai latticini e dalla vitamina D trasformata nella forma attiva (vitamina D3 o calcitriolo)
dal fegato e dal rene.
La vitamina D3 aumenta l’assorbimento intestinale del calcio
e lo rimuove dal tessuto osseo invecchiato. Alcuni ormoni sono importantissimi
in questo processo. Gli estrogeni e gli androgeni hanno un effetto positivo sul
metabolismo del calcio, mentre il cortisone e gli ormoni tiroidei sono antagonisti.
Dopo i 50 anni compare, specie nella donna, una perdita ossea in linea con
l’invecchiamento dell’organismo, detta osteopenia fisiologica.
Ma questa condizione diventa patologica, sotto forma di
osteoporosi, in presenza di alcuni fattori aggravanti.
Tra questi, un insufficiente apporto alimentare, un
difettoso assorbimento intestinale, una carenza di estrogeni indotta da
menopausa e da farmaci antiestrogenici usati per il trattamento del cancro
mammario, terapie prolungate con cortisonici, ipertiroidismo, immobilità di
lunga durata, come avviene con pazienti allettati, in particolare nei
cosiddetti lungodegenti.
L’osteoporosi è una malattia sistemica di grande impatto
sociale, che colpisce 3,5 milioni di donne in Italia, caratterizzata da una
riduzione qualitativa e quantitativa della massa ossea: quando il
riassorbimento di calcio ne supera il deposito, le ossa diventano fragili e
soggette a fratture. A questo punto, come diagnosticare l’osteoporosi? La
diagnosi radiologica va posta dopo l’esame radiografico standard eseguito su
più distretti: vertebre, bacino, femori, polsi, mani, e risulta condizionata
dalla mole del paziente, dalle modalità di esecuzione e dalla dose di raggi X
erogata. Per essere apprezzata, la perdita di calcio deve superare il 25 per
cento nelle vertebre e il 15 per cento nella mano; più facile è la diagnosi
nelle fasi tardive in presenza di cedimenti e di fratture conseguenti alla
rarefazione ossea.
Ma, in ogni caso, la radiologia tradizionale non potrà mai
quantificare la perdita di calcio. Questo problema è superato tecnicamente
dalla MOC, mineralografia ossea computerizzata, esame radiologico non invasivo
che misura il contenuto di calcio con apparecchiature DEXA, che eseguiamo nella
struttura in cui lavoro, la casa di cura “dott. Marchetti” di Macerata, a
livello della colonna lombare e dei femori.
I risultati ottenuti sono indicati con il termine “T score”
che indica la densità ossea del paziente confrontata con quella di un soggetto
dello stesso sesso ed età. Valori inferiori a -2,5 significano osteoporosi. Le
indicazioni all’esame sono molteplici, ma la priorità spetta alle donne in
menopausa o trattate con antiestrogeni per cancro al seno. Benché si tratti
sempre di diagnostica per immagini, vanno lette considerando le variabili sopra
ricordate. Il lavoro del radiologo, oggi, non è più, come detto, soltanto
quello d’individuare e di fissare un’immagine che definisce una realtà – che
non è mai l’ultima –, ma dovrà definirsi in integrazione con altri parametri,
come quelli rammentati e altri ancora, che possono emergere soltanto attraverso
un’interlocuzione fiduciaria con il paziente, dunque con una conversazione
prolungata, con la parola e con l’ascolto, nell’ineludibilità dell’incontro,
che non si esaurisce con la redazione di un asettico referto. L’incontro non è
mai stato eluso, nemmeno in questa stagione di Covid, grazie anche ai
dispositivi di protezione che la struttura mi ha subito messo a disposizione.
Nella mia pratica privilegio questo, insieme all’interlocuzione con i miei
collaboratori: il dottor Marco Pennesi, responsabile del servizio di
diagnostica per immagini della struttura per cui lavoro, e i bravissimi tecnici,
che oggi è molto riduttivo chiamare tecnici, perché hanno una solida preparazione
universitaria e i più una formazione liceale, Ivan Dominko, Chiara Quadraroli e
Elisa Acquaroli (si veda foto), con cui condivido parte delle mie ricerche.