QUANDO L’ALTRO È IL VIRUS
In questi primi mesi del 2020 è accaduto che quasi ciascun
abitante del pianeta abbia avuto modo di ascoltare, di leggere o di usare in
varie declinazioni due significanti della lingua greca di tradizione
millenaria: epidemia e pandemia. Per la medicina, epidemia è la diffusione di
una malattia “su” (epi) un territorio limitato, come una provincia o una
regione, o più vasto, su intere nazioni. Il significante pandemia, anche se
inizialmente fu usato come attribuzione benefica della dea Afrodite, indica da
tempo la diffusione di una malattia infettiva in più continenti, fino
all’intero pianeta, potendone colpire “tutta” (pan) la popolazione (demos).
Ciascun medico impara a conoscere presto caratteristiche, sviluppo, implicazioni
cliniche di entrambe le forme, ma riguardo alle pandemie si è fatto spesso
trovare impreparato.
Accade oggi quanto secoli fa, come leggiamo nella
celeberrima Guerra del Peloponneso dello storico greco Tucidide a
proposito della peste di Atene, o nelle Cronache di Procopio di Cesarea
sulla terribile peste che colpì l’impero bizantino al tempo di Giustiniano I.
Ne abbiamo letto in forma letteraria postuma a proposito della peste di Londra,
in Diario dell’anno della peste di Daniel Defoe, e ne I Promessi Sposi
di Alessandro Manzoni, su cui si sono formati e continuano a formarsi
generazioni di studenti. Ma, più terribile di tutte per estensione e lutti in
Europa, la peste del 1300, descritta, tra gli altri, da Boccaccio, che ritardò
di un secolo il sorgere del Rinascimento. Il bacillo yersinia pestis ha
imperversato per duemila anni in Europa e in Medio ed Estremo Oriente e, come
leggiamo dalla riscoperta delle storiografie cinese e indiana, con la stessa
intensità. La peste è stata il Nemico, invisibile, minaccioso, inafferrabile,
Altro rappresentato, che ha scandito la storia dell’Eurasia e minacciato a più
riprese le sue civiltà.
Le pandemie di peste, rappresentate nel quarto cavaliere
dell’Apocalisse, il più spietato, portatore di una minaccia dalla gravità
ciascuna volta più temuta in quanto ignota, sono entrate nell’immaginario delle
popolazioni eurasiatiche dando forma, fra il terrore e il panico, a paure non
meno gravi di quelle per le guerre.
A differenza delle altre malattie pandemiche ricorrenti, come
lebbra, vaiolo, colera, morbillo, debellate nei secoli dalla medicina, o
controllate, come la tubercolosi e la malaria, in Europa lo yersinia pestis quattro
secoli fa, a parte casi sporadici, è scomparso da solo nella sua patogenicità
pandemica.
Ha lasciato, tuttavia, tracce profonde nel nostro modo
d’intendere le società e i rapporti tra gli umani, rafforzando la cultura del
sospetto per lo straniero, come leggiamo nel mirabile saggio di Freud Lo
straniante.
Si è spesso imputata all’Altro l’origine del contagio e la
sua diffusione: agli Spartani nella peste di Atene, ai Tartari durante la peste
bizantina, ad untori domestici, oggi diremmo di quartiere, in pestilenze successive.
L’Altro portatore di peste è stato frequentemente estrapolato
dal contesto civile, e rappresentato via via, anche in assenza di pandemia,
nell’eretico, nella strega, nell’ebreo, nell’armeno, nel migrante, negando la
politica dell’ospite, i diritti e le virtù dell’Altro, fino ad arrivare ai
drammatici genocidi del secolo scorso. L’incultura del sospetto è andata sempre
di pari passo con la paura del contagio. Nella prima fase di diffusione
dell’attuale virus respiratorio SARS-CoV2, che provoca la forma clinica detta
Coronavirus Disease 19, o Covid-19, questo copione si era ripresentato.
L’untore è stato inizialmente individuato nel cinese, il suo luogo di
diffusione nella città di Wuhan, l’inizio nel dicembre del 2019. Eppure, dopo
sette mesi, il panorama iniziale del contagio è mutato profondamente. L’esame a
ritroso delle immagini radiografiche polmonari dei pazienti colpiti ha evidenziato
che a novembre 2019 la malattia era già diffusa in Europa nelle sue forme più
gravi e letali di polmonite interstiziale vascolare, e in Cina lo era da marzo
in differenti regioni. Ormai è inutile cercare un luogo unico di origine e un
unico Altro “colpevole”. L’Altro in questione, per l’attuale pandemia, è un
virus, sorto da uno spillover, o salto di specie, avvenuto forse nel
remoto Yunnan, e fa parte della nostra stessa biosfera.
In Italia e nel pianeta, tuttavia, a differenza delle
pandemie precedenti, questa volta si avverte uno sforzo maggiore in direzione
di un differente intendimento, sorretto dalla ricerca medica e biologica, ma
anche dall’elaborazione della nozione di Altro compiuta dalla psicanalisi e
dalla scienza della parola. All’inizio parte del demos e dei media
occidentali negavano l’esistenza della malattia o la rubricavano a “normale
influenza”.
Oggi, in questo fine agosto 2020, come testimoniano i dati
aggiornati su contagiati, deceduti, guariti, ma con seri problemi polmonari
residui, e la presenza di focolai, come chi scrive può testimoniare constatandolo
nel suo lavoro, non sussistono più dubbi che per il Covid-19 si tratti di
pandemia.
Tuttavia questa volta in sempre più casi si sta scoprendo,
oltre alle virtù, anche civili, dell’Altro anziché il suo pericolo, un’altra
declinazione di solidarietà, non sorretta soltanto da ideologie politiche o
patriottiche o da altruismi religiosi, ma connessa alla constatazione
dell’importanza dell’economia e dell’industria per la ripresa, anche in termini
di salute.
Questo ci fa intendere come l’auspicata instaurazione di una
città del secondo rinascimento passi anche da trasformazioni culturali come
quella che si sta verificando.
Curare gli aspetti sanitari e clinici dall’epidemia è
compito di medici, biologi, farmacologi, ma intervenire complessivamente nella
pandemia è compito, oltre che di questi, anche di politici, economisti,
imprenditori, la cui opera oggi è insostituibile per la ripresa, e, come
impegno civile, di ciascuno di noi.