L’INCONTRO DEL SEMPLICE
Nella vita, nella parola, la famiglia è il regalo
della sorte, della sorte ironica, da cui procede il viaggio, è la traccia
intellettuale per ciascuno: non è la famiglia ideale di appartenenza, la famiglia
chiamata umana.
“Ognuno”, “ogni uno” che si pensi, s’immagini, si creda nel
solco di questa appartenenza, ha un’idea di sé, un’idea genealogica. Questa idea
compie l’economia del sangue (pensato come veicolo dei caratteri genetici o dei
valori spirituali), che circola nella parentela, nella tribù, nel gruppo, lo distilla,
lo tramuta da impuro a puro.
Con l’economia del sangue i conti vengono pareggiati o fatti
tornare, rivendicati o saldati, per soddisfare un’idea di giustizia personale o
sociale: non la giustizia assoluta, ma la giustizia di convenienza. La vita
trascorsa in cerca dell’altra vita, più conveniente, è una vita in pena, una
vita destinata. E, sotto l’idea di destino, sotto la volontà dell’Altro (l’Anánke,
il fato dei greci), ognuno è indotto a trovare, in ciò che accade, segni, prove
e dimostrazioni che confermino il fatalismo negativo o, più raramente, quello
positivo.
Ognuno cerca dove e quando abbiano sbagliato lui, i
genitori, gli antenati. E così edifica quello che la psicologia chiama il
“vissuto”, se ne fa carico, se ne munisce (munus, il carico, il peso, in
latino), cioè non è più im-munus.
Questa l’im-munità: l’assenza di carico, di peso. E,
così, carico del vissuto, ognuno se ne nutre, ne è vincolato: è un
sopravvissuto.
Ma nella vita, nella parola, nessuno può guardarsi indietro
ripercorrendo la strada “fatta” per pesarla e giudicarla.
La natura della strada della vita è che non è mai “fatta”, è
la strada del gerundio. E nessuno sbaglia facendo: facendo, incorre
nell’errore di calcolo, ovvero nell’arte e nell’invenzione.
Questa è la strada della vita: il gerundio dell’esperienza,
il gerundio della memoria. Impossibile cancellare il gerundio, per ragioni
stesse di struttura, impossibile cancellare la memoria. E solo animalizzandosi,
divenendo un divino agnello sacrificale, sacrificante e sacrificato (supporto
del funzionamento del sistema, della famiglia come sistema, dell’azienda come
sistema, dell’istituzione come sistema), la vita è vita destinata, al modo
eroico o autonomo, vita fatale, osservante della volontà dell’Altro, rispettosa
del vissuto, del fatto. Le formule del precetto (“sta scritto”, “è destino”,
“ho fatto”, “ho vissuto”) cancellano il gerundio: e si sacrifica la vita lungo
il solco del dio/animale che si rivela al mondo e va in croce.
La famiglia che ha bisogno dell’animale sacrificante e
sacrificato a fin di bene è famiglia divina. E non c’è famiglia divina, sacra o
pagana, che non sia presa a modello da ogni famiglia “umana”. Lo constatiamo
nelle mitologie, nelle dottrine misteriche, religiose, politiche. L’alternanza
di umano mortale e di divino immortale connota la vita ideale. E la “scelta”
dell’animale da assumere come membro della famiglia, al posto di un parente o
per i giochi infantili o per la compagnia, si attiene all’obbligo
dell’alternanza fra mortalis e immortalis e dell’alternativa fra
l’animale devoto e l’animale omicida, fra l’amico e il nemico. È scelta obbligata.
L’alternanza e l’alternativa contrassegnano ogni viaggio iniziatico alla
ricerca dell’altra vita, della vita ideale.
Nell’idea di sé, come eroe o come autonomo, ognuno assume e
rappresenta la volontà del fato nel proprio viaggio iniziatico, dove il male si
tramuti nel bene, circoli, trovi la quadra e si risolva. Nel luogo comune
filosofico, psicologico, religioso, il viaggio iniziatico incomincia dalla
relazione con se stesso. Ecco gli imperativi della volontà ideale di relazione,
di relazione fra sé e sé: conosciti (conosci te stesso), stùdiati, pènsati,
pèsati, giùdicati, cùrati, correggiti, tortùrati, tormèntati, punisciti e ti
salverai. Questa relazione fra sé e sé è anche relazione fra sé e l’Altro e fra
l’Altro e sé. Una volta conosciuto, trattato e curato, l’Altro viene assorbito,
così da realizzare il comandamento religioso, il precetto della volontà ideale:
“Non avrai Altro all’infuori di me”, l’Altro è espunto a favore dell’Unico. Nel
luogo ideale, ognuno ha un’idea di sé come dio/ animale misericordioso o
terribile: “Io sono buono e caro ma, se ricevo uno sgarbo, divento cattivo, mi
arrabbio”.
Appunto: la rabbia, l’animalizzazione, il modello divino.
La vita, la parola, non è un luogo ideale né lo strumento
per relazionarsi, non localizza, non situa, non mette in pena, nel paragone con
gli ascendenti e i discendenti della genealogia. Nella parola, ciascuno dimora
nel gerundio, nella tendenza inesorabile delle cose verso la loro scrittura. La
condizione di questo processo linguistico narrativo è un punto che Armando
Verdiglione chiama sembiante: provocazione al dire, al fare, al
racconto e ostacolo alla parola facile, scontata, consumabile, fruibile.
Nessuno vede il sembiante, nessuno lo conosce, lo tocca o lo
prende; interviene quando meno ce lo si aspetta (è impertinente, straniante,
aberrante) e nell’interlocuzione con chi non ci si aspetta; non sa di gerarchie
né di competenze, non risponde alla volontà ideale. Per ciò è la garanzia di
una procedura non penale né penitenziaria. La procedura intellettuale è questa:
per la provocazione del sembiante, qualcosa si enuncia, l’enunciazione tende a
scriversi, e se non si carica di convenzioni, di cerimoniali, di protocolli,
c’è la chance che le cose si pieghino in maniera imprevista e incontrino
il modo, il tono, il timbro, il verso per scriversi come caso di qualità.
Non s’incontrano i parenti, non s’incontra la famiglia, non
s’incontrano le maschere, uomo o donna che siano.
L’incontro e l’interlocuzione intervengono sul terreno
linguistico nel processo narrativo pragmatico, dove le cose si fanno e si
scrivono. È l’incontro del semplice. E non è facile.