TANGENTOPOLI E IL DECLINO DELL’ITALIA
Spero che nei prossimi anni qualche storico riesca a
compiere un’analisi complessiva sugli effetti che, indirettamente, le
iniziative giudiziarie denominate “Mani Pulite” ebbero sull’economia italiana e
che ci stiamo trascinando ancora oggi. Quando iniziò Mani Pulite (che fece
emergere un sistema corruttivo generalizzato e, purtroppo, cronicizzato, nel
nostro paese), l’Italia era una nazione leader non solo in Europa, ma a tutti
gli effetti uno dei paesi più industrializzati al mondo (la sesta potenza
industriale mondiale). La caduta del Muro di Berlino coincise con un momento storico
particolare, che vedeva paesi leader, quali la Gran Bretagna e la Francia, alle
prese con gli ultimi anni di governo di due “grandi”, ovvero Mitterand e la
Thatcher, e con il Cancelliere tedesco Kohl alle prese con l’opera titanica di
riunificare le due Germanie. L’Italia, pur con tutte le sue consuete crisi
politiche interne, poteva contare invece su due leader politici di statura
internazionale, ossia Giulio Andreotti e Bettino Craxi (il quale aveva
ricoperto anche la carica di vicesegretario delle Nazioni Unite), e, per le più
svariate ragioni, entrambi potevano contare su solide alleanze internazionali e
su consolidati rapporti in molti paesi, sia europei che extra europei. Senza considerare
l’influenza che esercitava la Santa Sede sulla Polonia e sul ruolo che riuscì a
ritagliarsi anche in altri paesi dell’Europa dell’Est.
Si aggiunga il processo di disgregazione della ex-Urss; il
nostro paese, per molteplici ragioni, tra cui l’aver sempre intrattenuto
eccellenti relazioni con tutti i paesi dell’ex Comecon (ossia Urss e i paesi
dell’Est Europa), si trovava pertanto, all’inizio del 1992, in una assai
favorevole situazione per proporsi tra gli interlocutori più importanti per
sfruttare la massa rilevantissima degli aiuti finanziari messi a disposizione
dalla (allora) Comunità Europea e da altre istituzioni internazionali a favore dei
paesi ex Comecon, per consentire loro di uscire dalla gravissima situazione di
arretramento e di crisi economica (e che aveva poi portato al collasso
dell’economia del blocco “comunista”).
Il sistema imprenditoriale italiano si affacciò quindi
all’inizio degli anni Novanta su questi mercati, e ben presto si ritagliò uno
spazio rilevante, aggiudicandosi buona parte delle prime gare internazionali
indette nell’ambito di questi programmi interamente finanziati (come i
programmi Phare, Tacis, etc.).
Con lo scoppio di Tangentopoli e il conseguente arrivo di
nugoli di avvisi di garanzia a carico dei managers e dei dirigenti delle
principali aziende italiane coinvolte in questo processo di internazionalizzazione,
la maggior parte delle imprese aggiudicatarie di queste rilevanti commesse fu
“letteralmente spazzata via” ed estromessa dalla gare in corso di
aggiudicazione. Chi ha vissuto quei momenti ricorda bene che arrivavano presso
le ambasciate degli altri paesi europei competitori o presso le istituzioni
europee i fax riportanti gli articoli pubblicati dai giornali italiani, che
annunciavano quotidianamente l’avvio di indagini a carico dei rappresentanti e
dei managers di questa o di quella impresa, con la conseguenza che le revoche e/o
le espulsioni delle imprese italiane erano all’ordine del giorno.
Il fenomeno fu tragico e al contempo grottesco: erano
sufficienti gli articoli dei giornali per far revocare gare già aggiudicate o
per escludere le imprese italiane dalla partecipazione alle gare in corso di
aggiudicazione.
Inoltre, in quel clima di sospetto, l’elemento della
nazionalità italiana era bastevole per non far partecipare a gare imprese
corrette e non coinvolte in Tangentopoli.
La classe politica italiana non fu minimamente in grado di
adottare contromisure e di difendere gli interessi nazionali, e l’uso
disinvolto che fu fatto della comunicazione a mezzo stampa dell’avvio di
indagini (si sottolinea: il semplice avvio di indagini, che non è sinonimo di
colpevolezza acclarata) ebbero effetti devastanti, che si sono ripercossi in tutti
questi anni, primo tra i quali il danno reputazionale, seguito dalla “fisica”
eliminazione per anni del sistema imprenditoriale italiano da tutte le grandi
attività di privatizzazione, che furono spartite dai soliti “noti” paesi del
centro e nord Europa.
Ma questo processo di “epurazione tout court” colpì
anche il mondo dei professionisti e delle società di consulenza, che non ebbero
modo di competere efficacemente contro le strutture professionali e
consulenziali del mondo anglosassone e del nord Europa, che invece si
aggiudicarono, in maniera incontrastata, le importanti commesse della Comunità Europea
e delle altre grandi istituzioni internazionali. Questo consentì alle grandi
strutture professionali e consulenziali internazionali non solo di stabilirsi
nell’Europa centro orientale senza costi, ma di conseguire ingenti profitti e
di creare stabili relazioni, a livello sia politico sia istituzionale. Il
nostro paese perse quindi anche questa straordinaria opportunità d’inserirsi
nel processo di rifacimento degli ordinamenti e degli impianti socio-economici,
e di riscrivere le basi economiche-giuridiche- fiscali-bancarie-lavoristiche di
un foltissimo gruppo di paesi.
Il rammarico è tanto più evidente se si pensa che la prima
joint-venture tra uno stato comunista e un ente privato nacque in Romania, agli
inizi degli anni Settanta, su progetto di Licio Gelli, che ebbe il merito
storico, tra i tanti demeriti, d’inventare il modello di società mista
pubblicoprivato, tra una società di stato e una impresa privata straniera
(parliamo dello stato della Romania e della Lebole Facis, di cui all’epoca Gelli
era un dirigente). A questo modello si ispirarono poi, ricalcando
pedissequamente il modello ideato dal Gelli, tutti gli stati comunisti,
Repubblica Popolare Cinese compresa.