L’ETICA NON SI OPPONE AL PROFITTO

Qualifiche dell'autore: 
project and marketing manager di GIGI MEDICI Srl, Sassuolo (MO)

Da oltre quarant’anni, la Gigi Medici accompagnate i momenti più importanti delle principali case costruttrici di super car – come Ferrari, fin dall’inizio, e Maserati, in seguito – con progetti e oggetti che lasciano una traccia indelebile nella memoria dei proprietari e dei fans. Per valorizzare la particolarità di ciascun evento, divenite interlocutori dei vostri clienti: è ciò che dovrebbe fare l’azienda dell’avvenire… In un mondo globalizzato, dove tutto sta diventando così grande da impedirti di avere voce in capitolo, la responsabilità dell’interlocuzione sta passando sempre più nelle mani e nell’intelletto delle imprese, che devono farsi portatrici – non come entità economica, ma come comunità di uomini e donne – di alcune istanze importanti in ambito sociale. E se questo comporta un profitto, che cosa c’è di male? Hanno costruito l’America in questo modo. Invece, nel luogo comune, ciò che è etico viene contrapposto al profitto, come se per fare impresa fosse necessario commettere qualche illecito. Ormai siamo arrivati all’assurdo: se fai un’opera utile per la società e ci guadagni ti biasimano.
“Ma, cosa preferite – potrei rispondere – che io guadagni e faccia cose positive o che io guadagni e non faccia nulla a vantaggio della comunità?”.
Le aziende stanno incominciando ad avere questo ruolo sociale, quindi, nonostante i rischi insiti nel dare la cosa pubblica in mano all’azienda privata, non possiamo nemmeno lasciare tutto in mano a pochi. Alcune imprese sono a metà strada tra i cittadini e i pochi che detengono il potere. A livello provinciale possiamo fare l’esempio delle imprese aderenti alla CNA, di cui mio padre, Claudio Medici, è presidente, mentre a livello internazionale abbiamo l’esempio di Elon Musk. Per fortuna, i soldi rappresentano ancora il potere e le aziende permettono di frazionarlo e di dare voce a tanti. Io spero che i cittadini lo capiscano, altrimenti è nostro compito trasmetterlo: le aziende devono mettersi in gioco e avere un ruolo sociale, perché sono l’ultimo baluardo di civiltà. Tutto il ceto medio è stato spazzato via, si sono salvate le aziende grazie alla loro indipendenza economica.
In un recente incontro in CNA, un relatore ricordava che l’Italia non ha materie prime e, d’altra parte, esporta in tutto il mondo manufatti che sono capolavori. Questo vuol dire fare impresa in Italia e questo ci siamo proposti – come direttivo di CNA Giovani Imprenditori Modena – di trasmettere nelle scuole, perché i ragazzi acquisiscano la cultura dell’impegno. L’imprenditore può avere un’influenza sociale che vada oltre il fatto di assicurare un futuro a tante persone o di adottare politiche aziendali poco inquinanti o di promuovere lo sviluppo di infrastrutture che salvaguardino l’ambiente.
Quindi l’imprenditore è interlocutore anche dei cittadini, non soltanto dei suoi collaboratori… Certo, ma l’azienda deve trasformarsi anche al suo interno e gli stessi collaboratori non possono rimanere confinati al ruolo di dipendenti.
I miei collaboratori più stretti non lavorano secondo un orario prestabilito, ma rimangono in azienda in base alle occorrenze del progetto che stanno seguendo in quel momento. E, sentendosi considerati non soltanto meri esecutori, lavorano con molto più entusiasmo. Non è così scontato trovare collaboratori in grado di assumere la responsabilità di un progetto. Pertanto, noi dobbiamo incontrare tanti candidati prima di trovarne qualcuno che abbia questo approccio, perché purtroppo non è molto diffuso. Da tanti secoli, invece, è diffuso il pregiudizio che i soldi siano “sterco del diavolo”, che il titolare di un’azienda appartenga alla Gestapo e che pensi soltanto ad arricchirsi alle spalle del “povero lavoratore”.
Inoltre, dilagano ormai cupe previsioni del futuro. La mia generazione è terrorizzata dal futuro e questo è un grosso problema, per di più nascosto.
È un pregiudizio tipico dei giovani oggi credere di non contare nulla e di non poter fare nulla per trasformare il proprio avvenire. Chi cresce con queste premesse non s’impegnerà mai, anzi, cercherà di escogitare qualsiasi stratagemma per fare meno fatica possibile. Così, il suo lavoro diventa il suo nemico e, per otto ore al giorno, si sente costretto a fare l’opposto di ciò che gli interessa fare. La mia generazione vive questo malessere in prospettiva sia economica sia di vita: ha paura della morte, delle carestie e della siccità, raccontate come imminenti. Per forza, poi, molti giovani non s’impegnano: hanno ucciso la loro voglia di mettersi in gioco, fin dalla scuola, che non premia chi si mette alla prova, ma chi riesce a cavarsela. Occorre quindi chiedersi che cosa possiamo aspettarci da un sistema simile, se non una marea di protagonisti, individualisti, che non si sentono parte di una comunità e credono che tutto giri intorno a loro.
Ecco perché nella nostra azienda assumiamo persone che non si sono presentate millantando titoli, ma raccontando ciò che sono in grado di fare. Non è un pezzo di carta a qualificare una persona, ma il modo in cui diviene interlocutore nell’ambito dei progetti che inventiamo, di volta in volta, con i nostri clienti.