QUANDO LA BUROCRAZIA FA IL GIOCO DELLA CORRUZIONE
Nella vostra Officina Meccanica, leader nella
progettazione e nella produzione di stampi a iniezione per materie plastiche,
sin dai primi giorni di allerta per l’emergenza causata dall’infezione da
Covid-19 avete dovuto rispondere anche a nuove richieste da parte delle aziende
committenti. Come avete gestito l’emergenza? Alcuni clienti hanno preteso l’assicurazione
da parte nostra che noi non fossimo portatori dell’infezione, cioè che non
fossimo “untori”.
La domanda era sempre la stessa: “Come fate a garantirci che
le vostre forniture non subiranno ritardi o non saranno interrotte per
infezione da Covid-19?”. Io ho sempre risposto che in azienda abbiamo osservato
tutte le prassi elementari, raddoppiando il ritmo delle pulizie settimanali con
operazioni di disinfezione.
Inoltre, nessuno dei nostri collaboratori si è ammalato, ma
non avrei potuto fornire alcuna rassicurazione ulteriore.
Ho trovato assurdo che a causa del Covid-19 siano state
penalizzare le imprese italiane, con un danno d’immagine che resta molto grave.
Il governo ha chiesto di mettere in atto misure che praticamente hanno
paralizzato le aziende, perché oggi non tutto si risolve tramite “incontri” telefonici
o con lo smart working. Ci sono casi in cui per l’imprenditore è necessario,
anzi vitale, incontrarsi e parlare. Se togliamo questo dal nostro lavoro, che è
prettamente di parola e di scambio d’idee con i clienti, i fornitori e i
collaboratori la situazione diventa abbastanza difficile.
La nostra associazione, Confindustria, ci ha inviato alcuni
bollettini informativi, che di solito riprendevano quelli del Ministero della
Salute, segnalando quali erano le nuove regole emanate e senza commentare.
Le informazioni trasmesse dai media televisivi, invece, sono
state date spesso senza alcun discernimento. Il problema non è dare le notizie
sul Covid-19, ma piuttosto proporle in maniera sempre negativa.
Intanto, il settore turistico è in ginocchio e anche i
rapporti con le aziende sono a rischio nel momento in cui non abbiamo più modo
di interloquire né di scambiarci informazioni.
Qualche nostro fornitore ci ha detto sin dai primi giorni
dell’emergenza “noi non veniamo da voi”, che poi è diventato “voi non venite da
noi”. Se qualcuno pensa che questo sia servito a fermare tutto il mondo, si
sbaglia: in altri paesi, anche europei, le industrie andranno avanti ugualmente,
e se la caveranno meglio di noi, perché avranno occupato le posizioni da cui
noi ci siamo ritirati in fretta e a questo punto saremo stati tagliati fuori da
quei mercati.
A proposito del tema che esploriamo in questo numero
della rivista, come lei risulta interlocutore nella sua azienda? Prima di
tutto sono interlocutore quando scambio informazioni con i miei collaboratori,
che spesso hanno condiviso il mio approccio, soprattutto durante l’emergenza.
Devo purtroppo constatare che qualcuno ha suggerito di fermare l’attività, dal
momento che se l’azienda non guadagna è però sempre obbligata a pagare gli
stipendi di fine mese.
La mia impressione è che da una situazione di emergenza si esce
soltanto se il governo del paese non ha timore di prendere decisioni impopolari.
Il presidente cinese Xi Jinping ha preso queste decisioni,
anche se, occorre notare che ha fatto sparire chi aveva lanciato on line
l’allarme Covid-19. In Italia, chi compie ricerche in questo ambito occorre sia
non dico protetto, ma tutelato, in modo da poter valutare più serenamente gli
esiti della propria ricerca. Invece, oggi accade che quando un esperto dice
qualcosa fuori dal coro poi rischia molto in termini lavorativi.
Pertanto, è più comodo per tutti seguire l’onda del
politicamente corretto.
È la nuova dittatura del politicamente corretto? Il
politicamente corretto può essere impedito soltanto se ciascuno incomincia ad
ascoltare in modo critico e a comunicare senza paura le proprie opinioni, ma
oggi è ancora più difficile, forse anche proprio per la virulenta comunicazione
che consentono i social network.
In molti si sono chiesti perché la dittatura nazista
abbia garantito la libertà di ammazzare tanti uomini. Molti sapevano, ma hanno
preferito ignorare quanto accadeva. Perché, secondo lei? Bisogna
considerare ciò che è successo prima, in quali condizioni era stata messa la Germania
dopo la fine della Prima Guerra Mondiale.
Consideriamo cos’ha dovuto soffrire quel popolo. E guardiamo
cosa hanno fatto le nazioni creditrici nei suoi confronti. Il nazismo è stato
quasi uno sbocco naturale di una condizione indotta da paesi che hanno creato
tutte le condizioni per favorire in Germania una situazione di risentimento, di
isolamento e di disagio.
Che Hitler urlasse per annunciare che avrebbe risolto i
problemi di tutti faceva comodo a molti, ma la scintilla è stata provocata da
Francia, Italia, Stati Uniti e Inghilterra, imponendo a quel popolo condizioni di
vita disumane, debiti di guerra e depredazioni. Quello che è nato dopo, il
nazismo, non è stato certo edificante, ma è stato il frutto di quella
condizione. E non vorrei che il politicamente corretto ci portasse proprio oggi
a una condizione di paura tale per cui finiamo per accettare qualsiasi cosa.
Non è poi così difficile. Quando la gente comincia a essere stanca e poi sempre
più stanca di bombardamenti di prescrizioni lanciate in modo continuo è
naturale che i cervelli si assopiscano. Magari non tutti, ma basta eliminare o
sbattere in galera quelli che non sono ancora assuefatti.
Si riferisce alla situazione dell’Italia? Esattamente.
Non sono un legislatore, ma abbiamo tanti cantieri fermi.
Forse non sono ancora operativi in nome di questo
politicamente corretto? Il governo aveva già annunciato che i soldi sono stati
stanziati.
Perché allora non aprono i cantieri? Perché abbiamo paura
della corruzione? La corruzione è qualcosa che è strutturale e si limita
impedendo di lavorare ai corrotti, non alle imprese.
A questo proposito, cosa pensa delle dichiarazioni della
candidata alla presidenza di Confindustria, Licia Mattioli, imprenditrice di
Torino, a proposito della necessità di nominare commissari ogni qualvolta si
aprono cantieri per le infrastrutture del paese, prendendo a modello il caso
del ponte di Genova, come garanzia per la conclusione dei lavori in tempi brevi
e senza corruzione? Una presidente di Confindustria, che rappresenta
l’industria nazionale e che si permette d’inneggiare ai commissari contro la
corruzione – che naturalmente sembrerebbe essere propria delle imprese – non so
fino a che punto sia degna di rappresentare queste imprese. Lei si rivolgeva
allo stato perché, evidentemente, il suo interlocutore è lo stato, non sono le
imprese. Per di più, il cittadino che legge queste dichiarazioni potrebbe
pensare che le imprese sono tutte gestite da delinquenti.
La corruzione si annida nelle imprese o nei meccanismi che
lo stato appronta per il lavoro delle imprese? Perché, se consideriamo tutte le
normative e i balzelli a cui siamo sottoposti, tutto concorre a favorire la
burocrazia e quindi la corruzione.
Gli imprenditori fanno ricorso alla corruzione quando non
riescono a muoversi e a lavorare in maniera normale. Ma cosa crea questa
situazione? Le regole sono troppe, e soprattutto non chiare. È poco chiaro, per
esempio, anche il documento più semplice che dobbiamo compilare quando ci
rivolgiamo a qualsiasi ufficio pubblico, soprattutto nella parte che riguarda
le eccezioni a cui fanno riferimento i decreti ministeriali.
Io, che ho urgenza di concludere un progetto, cosa dovrei
fare? Inoltre, quando cerco qualcuno che mi dia chiarimenti, capita spesso che
trovi chi suggerisce procedure che non sono secondo le regole, per consentirmi
di arrivare alla conclusione della pratica. Questa modalità di operare non
facilita forse la corruzione? Il verbale di collaudo delle macchine che abbiamo
in azienda, redatto dal Ministero dell’Industria, è scritto in una maniera poco
chiara.
Quando in una frase troviamo quattro o cinque riferimenti a
decreti ministeriali, magari di quaranta anni fa, come possiamo pensare di
procedere con chiarezza nelle incombenze del nostro lavoro? Questo causa una
condizione tale per cui non si può mai essere sicuri di rispettare la legge,
lavorando senza la necessaria tranquillità.
È una forma di penalpopulismo verso le aziende? Se
noi avessimo a disposizione poche regole chiare e comprensibili, prima di tutto
diminuiremmo in maniera notevole i costi di produzione, perché non avremmo più
bisogno di rivolgerci a quattro o cinque professionisti diversi per compilare
un documento. Per questa via, invece, si finisce con il dover ascoltare sempre più
pareri con notevoli perdite di tempo. L’imprenditore vive sul filo di scadenze
quotidiane e ha bisogno di decidere in modo immediato.
Noi dobbiamo prendere decisioni entrando nel merito delle
sollecitazioni che ci arrivano dal mercato e rispondendo subito, non dopo un anno,
sei o tre mesi.
Se rileggiamo i casi più noti di corruzione in Italia,
possiamo domandarci chi ne ha tratto i maggiori vantaggi. L’imprenditore o la
catena di persone da cui era circondato? Spesso l’imprenditore ha fatto la
figura del “pirlotto”, si dice a Bologna, perché si è messo in una certa
condizione senza che gli tornasse indietro nulla o poco. Ci hanno guadagnato,
invece, coloro che gli stavano attorno, che per esempio gli hanno dato pareri
tecnici e professionali. All’imprenditore non è rimasto nulla, mentre gli altri
si sono spartiti come bottino quello che aveva costruito. Credo sia una
strategia predisposta proprio ad hoc per dividersi il frutto della
corruzione.
Pensiamo a Raul Gardini. Crede che gli interessasse
guadagnare un milione in più o un milione in meno? A Gardini interessava che la
sua azienda producesse. Accanto a lui ci sono stati invece quelli che hanno tratto
ingenti guadagni. Quando queste operazioni non riescono, diventano dei “caso
Mattei”. Chi non è riuscito a tessere la rete che aveva in programma ha fatto
in modo che cadesse l’aero su cui viaggiava Enrico Mattei. Se consideriamo
anche il “caso Tanzi”, possiamo constatare come sia finito in galera soltanto
lui.
Può avere commesso molti errori, ma immaginiamo per un uomo
di questa portata cosa vuol dire finire in galera a settanta anni.
Come vi state attrezzando per rilanciare i programmi
dell’azienda, dopo la fase di emergenza sanitaria? La nostra intenzione è
di continuare a lavorare e di continuare a parlare con i nostri clienti, senza
farci prendere dal tourbillon di notizie. Ai nostri clienti rispondiamo che
cercheremo di mantenere i programmi, salvo che le autorità non ci mettano i
bastoni tra le ruote.
Faremo anche alcune riunioni in teleconferenza, benché
questo possa costituire un problema, perché per noi è ancora importante
parlare, guardandosi in faccia di persona.
Qual è la logica che sottende l’obbligo di far lavorare i
dipendenti da casa? Non è nello stile delle nostre aziende, ma credo invece sia
un’ideologia che avanza, in particolare una nuova paura dell’altro.