IL DIRITTO PENALE TOTALE
Il diritto penale, che insegno da oltre quarant’anni, fino a
poco tempo fa era una materia confinata agli addetti ai lavori. Nella realtà di
oggi, invece, piaccia o no, interessa tutti, perché tutti noi siamo esposti a
due parametri che dilatano l’ambito penale: da un lato, l’incertezza del
diritto e, dall’altro, il criterio del sospetto.
Prima vigeva l’idea tradizionale del diritto penale
rispettoso degli articoli 24, 25 e 27 della Costituzione: il diritto penale
deve nascere dalla legge e solo una legge del Parlamento può stabilire norme
penali, perché il Parlamento è il solo depositario della capacità di valutare e
bilanciare gli interessi in gioco, ovvero la tutela dei beni fondamentali della
vita associata e la tutela della libertà dei singoli.
Il criterio per salvaguardare questi interessi era la
certezza: le norme penali devono essere tali da consentire a chiunque di sapere
anticipatamente se la sua condotta è lecita o illecita.
Secondo la visione tradizionale, che risale all’Illuminismo
ed è perdurata – almeno a livello di enunciazione dei principi – fino agli anni
sessanta del secolo scorso, il giudice dovrebbe essere soltanto “la bocca della
legge”, come dicevano i francesi durante la rivoluzione. Noi dicevamo semplicemente
e più banalmente che il Giudice è colui che applica la legge, e non la crea. Il
Parlamento fa le leggi e il giudice le applica. E le applica, se parliamo del
diritto penale, attraverso la verifica se un comportamento rientra o non
rientra nel testo di una norma penale: se rientra nella previsione della norma
penale, l’agente sarà punito, se non vi rientra, sarà assolto.
Oggi purtroppo non è più così, perché è subentrata
un’incertezza di fondo del diritto penale, causata da una serie di fattori che complicano
la situazione e che rendono il giudizio sulla liceità di un fatto un giudizio
di tipo probabilistico, non di certezza.
Uno di questi fattori è l’intreccio tra norme di fonte
diversa: le fonti sovranazionali dell’Unione europea, le convenzioni
internazionali, ma soprattutto le norme secondarie, che hanno un rilievo
straordinario nella vita operativa del diritto penale, come i regolamenti delle
autorità amministrative indipendenti e i regolamenti comunali.
Chi si occupa di edilizia, per esempio, sa benissimo che il
reato di abuso edilizio (art. 44 del Testo Unico) è sì previsto dalla legge, ma
se io voglio sapere se, spostando una parete all’interno della mia abitazione,
ho commesso un reato devo andare a verificare le norme regionali, le norme di
regolamento comunale, le norme tecniche di attuazione, trovandomi in una
situazione di tale incertezza che neanche l’esperto riesce a districare.
Analogamente per il settore del diritto penale tributario,
per fare un altro esempio.
Ma, soprattutto, il primo fattore d’incertezza è il ruolo di
creazione del diritto da parte del pubblico ministero e del giudice: nonostante
tutte le leggi, quello che conta è cosa pensa il giudice, soprattutto se agisce
a un livello d’interpretazione “creativa” della norma, non semplicemente d’interpretazione
applicativa.
Ormai il diritto penale è affidato al Magistrato, al punto
che la stessa Corte costituzionale, che sarebbe l’organo fondamentale per
valutare la legittimità costituzionale delle norme vigenti nel suo complesso,
ha creato la figura del “diritto vivente”: non analizza soltanto il testo di
legge, ma tiene conto di come il testo di legge vive nella realtà comune, per esempio,
come viene interpretato dai giudici.
Il diritto vivente, per la Corte costituzionale, è il
diritto della Corte di Cassazione, ma anche della Corte europea dei diritti
dell’uomo o della Corte di giustizia.
Cinquant’anni fa sarebbe stato impensabile parlare di
diritto vivente, perché il diritto vivente non esiste: è la norma che vive, è
il testo che vive, non l’interpretazione che i giudici ne danno.
Invece, nella realtà odierna, sono veramente tante le
sentenze che parlano di diritto vivente. Non solo, ma la stessa Corte costituzionale
fa riferimento alla “coscienza sociale” per valutare se una certa norma è compatibile
con la Costituzione o no.
Coscienza sociale, ovvero: come vive nella realtà sociale
quella norma? C’è compatibilità? C’è congruità tra quella norma che è oggetto
di giudizio di costituzionalità e la realtà sociale del momento? Se non c’è, la
dichiara illegittima costituzionalmente, se vi è una congruità o una
corrispondenza allora salva la disposizione.
In questo modo siamo di fronte a una situazione di assoluta
incertezza del diritto: tutto il diritto penale è affidato all’esperienza dei
giudici.
Ovviamente, questa fenomenologia ha due inconvenienti.
Il primo è la personalizzazione della decisione processuale,
che si orienta sempre di più sulla persona dell’autore del fatto e che sostituisce
il principio giuridico che chiunque commetta un furto sarà punito, a
prescindere dagli aspetti di valutazione personale o sociale, salvo attenuanti o
aggravanti.
Il secondo è che l’opinione del giudice, che è e dovrebbe
essere un’opinione giuridica, diventa anche un’opinione sociale, cioè diventa
il contesto dei valori che il giudice condivide, che il giudice approva, magari
lui soltanto e non un altro giudice, come succede con grande frequenza.
Quindi, non c’è più eguaglianza di fronte alla legge: il giudizio
dipende dalla visione di un giudice, dalle opinioni sociali, politiche o di
altro tipo che il giudice ha sull’imputato e del contesto in cui il fatto
storico si colloca.
A questa impostazione si collega anche un fenomeno in
crescita drammatica e che espone ciascuno di noi a una situazione di rischio:
il sospetto.
Il giudizio basato sul sospetto è agli antipodi del giudizio
basato sulle prove. Mentre nel processo tradizionale la condanna dipende dalle
prove del fatto (i testimoni, i documenti, il corpo del reato), se ragioniamo
in termini di sospetto, non è più una questione di prove, ma di idea e
impressione soggettiva, anche emozionale: cioè il sospetto che qualcuno possa
essere l’autore del furto per i suoi precedenti o per il suo stile di vita.
Così, le prove contano poco: se tutto è basato sul sospetto,
cioè sull’opinione, viene alterato completamente ogni meccanismo giuridico.
Fino a pochi anni fa il sospetto era legato (e relegato)
alla prevenzione della mafia, del terrorismo, della criminalità organizzata, ma
oggi, con una legge di dicembre 2019, il concetto di sospetto è stato esteso
anche ai reati tributari, di cui può essere sospettato ciascun cittadino.
Prima di avere le prove, è sufficiente il sospetto per
generare conseguenze di tipo catastrofico, vale a dire il sequestro di tutti i beni
della persona.
Inoltre, prima di questa legge, il sequestro dei beni
riguardava quel che la Guardia di finanza, l’Agenzia delle entrate, il pubblico
ministero ritenevano fosse il frutto o il profitto dell’evasione, mentre oggi
il sequestro abbraccia tutti i beni della persona. Spetta poi all’indagato spiegare
che una parte di quei beni non sono legati al profitto del reato eventualmente commesso,
con una precisa inversione dell’onere della prova: è compito dell’accusato
dimostrare che quei beni sono di origine lecita, magari risalendo alla notte
dei tempi, un’operazione complicatissima e molte volte destinata al provvisorio
insuccesso.
E, poiché il processo, dunque il sequestro, possono durare
vari anni, anche nel caso di assoluzione il problema può essere serio.
Anche perché il cittadino spesso viene a sapere
dell’esistenza di un procedimento penale direttamente dalla banca che lo
avverte del congelamento del conto corrente e del blocco della carta di credito,
mentre la notifica del sequestro può intervenire tempo dopo.
Se poi leghiamo questo sistema alla scomparsa della
prescrizione, questo vuol dire che ciascuno può essere assoggettato a un
processo infinito, con i propri beni sequestrati in modo indefinito nel tempo e
nello spazio.
Altro che diritto penale totale, questo è un vero diritto
penale totalitario.
Quando Giancarlo Mengoli parlava di stato materno o
paternalistico, che vuole controllare dove andiamo, quanto spendiamo, fino ai
singoli movimenti di ciascuno di noi, descriveva la configurazione concreta del
sospetto: del resto, il padre o la madre hanno sempre il sospetto che il figlio
faccia qualcosa di male.
Ma lo Stato è un’altra cosa o dovrebbe essere un’altra cosa,
dovrebbe considerare i cittadini persone responsabili, che hanno la capacità d’intendere
e di volere e di gestire la propria vita. Questa delega allo Stato, come hanno
scritto vari sociologi, è legata al fenomeno della scomparsa dei controlli
primari, un tempo attuati dalla famiglia, dalla Chiesa, dalla scuola, dal
contesto sociale della comunità.
Questa sparizione dei controlli primari ha comportato che i
problemi finissero con il convergere sul diritto penale: se il figlio viene
bocciato, scatta una denuncia per abuso d’ufficio nei confronti dei docenti.
Hanno dovuto depenalizzare l’ingiuria, perché le riunioni di condominio davano
vita a centinaia di processi per ingiuria che bloccavano i tribunali, mentre una
volta la contesa si risolveva al massimo con invettive. Ma ora, se non denunci,
sembra che tu abbia seguito una strada remissiva, che non accetti il guanto di
sfida nel duello. E, quindi, una parte di responsabilità nell’espansione senza
limiti del diritto penale è di molti di noi.
Un altro aspetto è la visione che i magistrati, ma anche
molti cittadini, hanno della società: una società a rischio zero. L’illusione è
quella di una società senza rischio a tutti i livelli, a livello dell’ambiente,
del cibo, del gioco: se c’è un problema, ecco subito una denuncia al sindaco o
al professionista.
Eppure, una società senza rischio è un’illusione totalmente infondata:
basti pensare, per esempio, alla circolazione automobilistica, con le sue
migliaia di morti ogni anno.
La società senza rischio non esiste, ma l’opinione pubblica esige
una società industriale senza alcun tipo di emissione, e i mari puliti nel modo
più totale: la società non deve avere rischi.
Questo determina una visione lontana dalla realtà e dalla
verità che incide anche sulla magistratura, generando perdite di valore a livello
aziendale ed economico, sequestri a tappeto al solo lamentare (anche qui basta
il sospetto) emissioni che si suppone non conformi ai dati normativi.
Eppure, il sequestro, la confisca e la chiusura dovrebbero
essere semmai l’effetto di una sentenza, non l’effetto di un’ideologia del
sospetto che induce il magistrato a decidere attenendosi agli esposti di
associazioni varie.
Tanto più che il consulente del pubblico ministero, nel 99
per cento dei casi, avalla la visione del pubblico ministero – il suo committente
–, che afferma che quelle emissioni hanno causato nei dintorni decine di morti.
Poi si constata che non è così, ma lo si constata dopo un
avvenuto sequestro, con tutti i danni già prodotti.
Questi sono i processi che “creano il fatto”, mentre il processo
dovrebbe nascere, secondo il codice di procedura penale, a seguito di una
notizia di reato.
Aggiungo che quei sociologi a cui facevo riferimento sottolineano
che la qualifica di vittima dovrebbe essere la conseguenza dell’accertamento del
processo. Cioè, soltanto la conclusione del processo definisce la vittima di
quel determinato reato e il suo risarcimento: la vittima non può essere
qualificata come tale prima del processo, altrimenti si sancisce un diritto
penale del sospetto che non dovrebbe avere nessuna cittadinanza.