L’IDEOLOGIA DEL WELFARE CONTRO IL DIRITTO
Il libro di Filippo Sgubbi Il diritto penale totale (il
Mulino) è preciso e coraggioso, anche se ha rinfocolato una grande tristezza
per noi avvocati che vediamo il diritto appassire, vediamo questa trovata
fantastica della cultura greco-romana avviarsi verso un modello secondo cui non
siamo più di fronte a norme astratte, ma a comandi personali. La nostra Costituzione
ha affrontato il problema della legge per santificarla nel primo comma
dell’articolo 3, secondo cui tutti i cittadini sono uguali, senza differenza di
razza, lingua, religione, opinioni politiche e condizioni personali e sociali.
Questo principio è il frutto di una battaglia secolare. Per spiegare il diritto
fino a oggi, posso richiamare un’immagine nota a ciascuno, quella della
circolazione stradale nell’ora di punta intorno a una rotonda: vi s’intersecano
rapidamente decine di automobili che perseguono la propria traiettoria, ma
obbedendo alla legge non collidono, pur in assenza di un vigile o di un
semaforo. È una cosa, per dir così, miracolosa.
Questo prova che siamo nel mondo del diritto? Purtroppo no,
non lo siamo. Il secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione va in
direzione opposta: prevede l’intervento della Repubblica “per rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana
e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori” (non so perché solo i
lavoratori) all’organizzazione politica, economica e sociale del paese. Quindi,
la Repubblica deve anche attivarsi per rimediare alla disuguaglianza e per
giungere all’uguaglianza. Ma siccome di fatto le disuguaglianze esistono e
continuano a esistere, insite come sono nella vita di tutti i giorni, questa
norma legittima tutta una serie di attività che codificano definitivamente la
disuguaglianza, giustificandola o non giustificandola.
Le quote rosa sono un classico caso di disuguaglianza
formale, ma ce ne sono tante altre. Praticamente, nell’attuale situazione, vige
il principio di disuguaglianza, nasce l’obbligo di legiferare rapidamente per
provvedere a combattere le disuguaglianze che, trasformandosi velocemente, richiedono
un intervento adeguato, il che significa che la produzione normativa deve
moltiplicarsi in modo rapido. Per cui, poiché i rapporti tra cittadini crescono
sempre più, è inevitabile che l’attività normativa dello stato sia rapida e
continuamente in movimento.
Risultato: la chiusura di studi legali e il macero di
biblioteche con trenta o quarant’anni di giurisprudenza.
Non c’è più la storia della dottrina, della giurisprudenza,
della legislazione: io, come avvocato, cambio tre o quattro volte l’anno il
dischetto che contiene tutto quel che occorre.
Quindi, la durata di queste norme, che i cittadini
dovrebbero sapere, è indicativa. E lo stesso vale per la giurisprudenza.
Ma c’è un ulteriore terzo comma dell’articolo 3, non
scritto, che ha introdotto la legge imposta o creata dal giudice, il quale non
solo applica le leggi stabili o quelle recenti e transitorie, ma applica ancora
un altro criterio derivante da una sorta di mutamento della società italiana, che
Sgubbi registra molto bene: l’animo del reo, dell’imputato. È un criterio che
io definisco tipicamente materno: il criterio di giudicare le persone come si
giudicano i figli, non in base alle norme obiettive, che vengono insegnate, ma
in base al criterio della madre che giudica la psiche della persona, dunque proporzionando
le pene al carattere dei figli, seguendoli in modo differenziato e presumendo
che mai si staccheranno da lei. Al contrario, l’approccio paterno, quello
storico, è quello di preparare i figli offrendo loro un bagaglio di norme, per cui
possano uscire dalla famiglia e costituirne una propria. È una tendenza molto
ampia, che Sgubbi registra cominciando a dire che ci sono categorie di persone
qualificate come “pure” e “impure” per vicende personali o perché appartengono a
determinati gruppi. Categorie che sono codificate, per cui il giudizio del
giudice è un giudizio personale e concreto di quel caso. Ma, allora, non serve
più conoscere la legge, tanto sappiamo che non è conoscibile in toto e neanche
tempestivamente: la soggezione al giudizio del giudice fa sì che io non sappia
mai in un certo momento se sono colpevole di una cosa di cui mi sento innocente
o viceversa. Come mi sento io, confrontandomi con la legge, può essere tutto
sommato esattamente l’opposto di quello che il giudice deciderà in base a mie
caratteristiche personali. E a questo punto è chiaro che la giustizia diventa
una giustizia personale.
Non mi pare che questo dipenda da un potere prepotente,
assolutista, che ridurrebbe i soggetti in schiavi.
Credo si tratti, semmai, dell’effetto del welfare. Con il
welfare si toglie ai cittadini ogni necessità, in cambio del pagamento delle
tasse, esautorandoli progressivamente da tutti gli impegni della vita, secondo
il principio materno. Si è cominciato con la previdenza sociale, facendo così
capire che non occorreva più avere figli, poiché i figli dovevano servire a
essere mantenuti quando si diventava vecchi. Per quanto riguarda la malattia,
allo stesso modo, lo stato costruisce gli ospedali, una sanità pubblica, per
cui non è più il medico che viene a casa tua come avveniva prima della guerra,
adesso devi andare in una struttura efficientissima, pronta per te.
L’istruzione è obbligatoria, i trasporti, la sicurezza, tutte le funzioni umane
partecipano a una visione amicale e benevola dello stato che dice: “Ti aiuto
io, sei coperto da ogni rischio”. Si crea così questo alone intorno a ognuno,
per cui, alla fine, è legittimato il fatto che il giudice ti dice: “Tu sei un
bambino e a un certo punto ti giudico come un bambino”. Credo che questa progressiva
perdita d’identità del diritto sia l’effetto del welfare.