LA CIVILTÀ DEL DIRITTO ANZICHÉ L’INCULTURA DEL SOSPETTO
Nel libro Il diritto penale totale. Punire senza legge,
senza verità, senza colpa (il Mulino), scritto da un fine giurista come
Filippo Sgubbi, sono raccolte venti tesi dalla cui lettura risalta come, da
alcuni decenni in Italia, sia in atto la metamorfosi del diritto in diritto
penale totale: un diritto sempre più rivolto contro l’Altro, orientato più
dalla vendetta contro il cittadino che dalla giustizia. Il diritto penale
totale riguarda ciascuno, avverte l’autore: “Ad analogo sviluppo penalistico
si presta la logica della violenza strutturale: razzismo, sessismo, omofobia,
e perfino subordinazione in materia di rapporto di lavoro, sono fenomeni che
aumentano il tasso di vulnerabilità di alcune categorie. Chiunque si senta
discriminato da una condotta di un altro soggetto e si senta trattato in modo
non paritario, è legittimato a sentirsi vittima di un illecito. (…) In tale contesto
– prosegue l’autore –, il pregiudizio maggiore è subìto dal diritto di
manifestare liberamente il proprio pensiero e dalle altre forme di creatività umana,
pur trattandosi di cardini di un sistema democratico. Le censure dettate dal politically
correct sono ben note e colpiscono la libertà di parola e la libertà
dell’arte”.
Come meravigliarsi che la struttura produttiva del paese,
costituita da un tessuto di PMI unico al mondo, negli ultimi decenni abbia
subìto un attacco giudiziario e fiscale senza precedenti? Oggi viviamo in un
paese che stigmatizza, persegue e mette al bando, attraverso vere e proprie
persecuzioni da parte di tribunali e PA, imprenditori e professionisti – la
cosiddetta media borghesia – perché il loro fare è sottoposto a un’idea
penalistica: la mano di chi fa non è mai abbastanza pura dal momento che ha
bisogno di costruire, d’inventare, di produrre e di vendere i prodotti della
propria industria.
Scrive ancora Sgubbi: “La responsabilità penale si può
allora spiegare anche con le categorie puro/impuro, come nella visione
selvaggia del peccato. Il reato è divenuto una colpa per alcune categorie sociali
(…), come un male insito nell’uomo e nel suo ruolo nella società.
(…) Il reato e la colpa sono uno stato: uno stato che
precede la commissione di un fatto. Assomiglia al peccato originale proprio
della tradizione di talune religioni. Con una peculiarità: non si tratta di una
colpa generale inerente alla persona umana come tale, ma è legata al ruolo
sociale ricoperto o alla tipologia di attività (non, si badi, a uno specifico fatto)
che svolge nella vita”.
È un diritto penale totale specializzato nella ricerca della
macchia, come nota ancora l’autore: “I soggetti impuri appartengono a una
specifica categoria sociale. Sono coloro che hanno una colpa/peccato insita nel
ruolo sociale ricoperto. Questa macchia originale – prosegue l’autore – è
rappresentata dall’autorità, dal potere decisionale sugli altri consociati di
cui necessariamente alcuni soggetti sono investiti”.
Non è forse questo il leitmotiv della litania sociale
che vuole criminalizzare l’autorità dell’imprenditore, sottoponendola al
principio del “fare gruppo” a tutti costi? Questo criterio non vale quando
l’imprenditore deve pagare per aver assunto decisioni non “condivise” dai
collaboratori o per foraggiare un welfare aziendale che dovrebbe essere finanziato
dalle tasse dei cittadini.
L’imprenditore non è una categoria sociale, ma, se lo fosse,
sarebbe l’unica a non essere indicata come “socialmente protetta”, anzi
“penalmente sospetta”.
Ecco perché “si moltiplicano protocolli di comportamento,
decaloghi di trasparenza, codici etici e di autodisciplina, modelli
organizzativi nei più svariati settori”, nota ancora Sgubbi, che aggiunge: “I
privati titolari di determinati ruoli sociali sono gravati da compiti di polizia
a favore dello Stato, da svolgere sulla base di parametri incerti (…).
La dimensione pubblica prevale sugli interessi privati”.
Nel libro Il gusto dell’onestà (Spirali) Armando
Verdiglione scrive: “Il penalpopulismo chiama “rivoluzione culturale” la deroga
alle garanzie, ai diritti, alle ragioni civili, alla politica civile, la
prolessi ideale della pena affidata all’arbitrio del sospetto, la morte preventiva,
la soluzione della questione della parola attraverso la confisca, il carcere preventivo,
il sistema preventivo come migliore sistema di polizia e di pulizia, lo Stato
nel suo radicalismo e nel suo purismo”.
E il sospetto si fonda sul principio della prevenzione
proprio al penalismo religioso. A proposito dei Diritti dell’uomo contro il
popolo (Liberilibri), nota infatti Jean-Louis Harouel un nuovo “diritto
penale della religione dei diritti dell’uomo”, che “imbavaglia l’opinione tanto
efficacemente quanto un regime totalitario”, indossando i panni di una religione
di stato, quella dello stato etico, tanto più intollerante verso chi non si
conforma ai suoi precetti.
Sgubbi scrive che la cultura del sospetto dilaga anche, per
esempio, tramite “la normativa c.d. antimafia: misure di prevenzione personale
e patrimoniale fondate sul sospetto e sui meri indizi che – nonostante i moniti
della Corte EDU – sono esorbitate dal perimetro mafioso, per investire anche
delitti quali l’art. 640-bis c.p. e l’associazione per delinquere
semplice purché finalizzata alla commissione di numerosi delitti contro la
pubblica amministrazione”. Il sospetto, allora, “può essere rafforzato proprio
dall’assenza di prove, in quanto dimostrativa di abile callidità”.
Fino al formante algoritmico proprio ai big data che
“assumono centralità nell’operato della giustizia, anche penale: tutti gli
elementi di fatto e di diritto entrano in database in grado di utilizzare e di
elaborare tali dati a fini predittivi. (...) La libertà perde il suo primato e
tende a diventare eccezione...”, conclude l’autore.
Ma il diritto è questione di civiltà – come già notava
Giambattista Vico a proposito degli antichi Romani, che considerava inventori
del diritto e della poesia –, non una questione di stato etico e tanto meno
sociale.