IMMUNITÀ E INTERLOCUZIONE
L’epoca della comunicazione totale, diretta, “virale” ha
incontrato con il Covid-19 il suo contrappasso: l’influenza incontrollata, il
contagio rapidissimo, il virus senza vaccino. E l’esibizione dei contatti nei
social è divenuta tabù del contatto, paura di toccare, paura di una stretta di
mano. Che ne è del Noli me tangere con cui Cristo, in mezzo alla folla, indica
che la parola non si tocca, non si prende? Inebetiti, come tanti Tonio dei Promessi
sposi, ai vincenti di ieri non resta che dire: “A chi la tocca la tocca”. E
quanti sedicenti comunicatori ci avevano spiegato come padroneggiare
l’influenza per vendere, per dirigere l’azienda, per vincere le elezioni? Dove
sono ora questi guru? E quanti influencer hanno dispensato consigli mercenari
per gli acquisti a seguaci di umam telematiche? Che farsene ora delle
loro mise scintillanti e delle loro mete da sogno? E per quanti giorni, mesi, anni
plotoni di poliziotti, finanzieri, magistrati hanno inquisito Armando
Verdiglione e la sua impresa culturale prima per abuso d’influenza poi per
anomali flussi finanziari? A cosa servono le loro manette contro il virus? Il
virus non si fa intimidire nemmeno dalle pistole di Xi Jinping, scrive il
dissidente cinese Zhou Qing nel suo articolo.
Già nel Martello delle streghe, il manuale degli
inquisitori del XV secolo, la comunicazione era diretta, avveniva per contatto:
il diavolo agisce per contatto, contamina e infetta. Come il virus. La
comunicazione anomala, i flussi di dati non autorizzati sono diabolici;
l’intervento inquisitorio ne compie l’economia, è legittimato a ristabilire la
distanza di sicurezza, l’equilibrio sociale, i valori della comunità (communio),
il giusto bilanciamento del peso (munus). “Abbiamo mangiato l’ultimo cannibale”:
la felice comunione è la comunità cannibalica, una volta cacciato (respinto o
incluso) l’Altro. Altra cosa l’immunità (immunitas): nonostante tutte le
diete e i regimi, non c’è il giusto peso della bilancia e del bilancio, non c’è
più punto medio, punto di equilibrio, axis mundi. Questa immunità non è
di gregge, è nella parola, in cui il gregge si vanifica: l’immunitas è
virtù del tempo e dell’Altro narrando, facendo, scrivendo, quando la comunicazione
non è diretta, perché trova nell’interlocuzione il suo dispositivo.
L’interlocuzione non è il dialogo, non esige le relazioni
interdipendenti, lo schiavo di Menone, di cui parla Platone, o il parlante
natio teorizzato da Noam Chomsky.
La comunicazione diretta di Socrate lo porta alla morte,
alla scelta obbligata per stare al suo posto, per raggiungere il fine del
dialogo, la ragione e il diritto sull’Altro.
Il dialogo è polemologico perché è contro l’Altro. Nel
dialogo una cosa esclude l’altra, la ritarda, la sposta, la frammenta, la
negativizza. Platone inventa il dialogo partendo dalle dottrine misteriche, in
cui la parola serve all’iniziazione, alla vicinanza impossibile all’Altro o a
sé. Eppure, nessuno può iniziarci alla parola, all’atto: come notano gli
imprenditori in questo numero, l’interlocuzione non è iniziazione, non c’è iniziazione
alla ricerca e all’impresa, alla scrittura dell’arte e dell’invenzione.
L’interlocuzione è la comunicazione senza iniziazione, per
questo serba l’immunitas: solo se il tempo finisse, sarebbe possibile l’iniziazione.
E secondo l’iniziazione, solo ciò che finisce significa e si comunica.
L’iniziazione mira all’accordo linguistico: la lingua
segreta è la lingua perfetta, senza malinteso. Ignora l’interlocutore, che non
si compiace delle nostre idee, che non parla la nostra lingua, la lingua che ci
conforta, bensì la lingua del disturbo, la lingua disturbante, quella che non è
innata, che non rientra nel dialogo, nella comprensione, nell’empatia in cui
ognuno dà o prende secondo la volontà dell’Altro come colmo della propria. Lo
scambio esige l’interlocuzione, il dispositivo della parola, non il dono del
nulla o di morte per fondare soggettività e personalismi, identità e diversità.
Per questo l’interlocutore non è il compagno della sfida sociale, della
comunità umana, ma l’interlocutore della scommessa di vita, chi non è preso
nella paura dell’avvenire.
E il progetto e il programma non si redigono forse
nell’interlocuzione, cercando, facendo scrivendo, narrando? L’interlocutore è
indispensabile: questione di ascolto, questione di luce. Non è l’Altro, occorre
che ciascuno s’instauri come interlocutore, nella disposizione assoluta a
ascoltare, a intendere, senza pretendere di comprendere.
In particolare nell’impresa, l’interlocuzione pragmatica,
nell’urgenza e nell’occorrenza, tra il tempo e la piega delle cose, sospende la
comunicazione diretta, poggia sul silenzio, senza cui è tutto un parlarsi addosso
a sé e all’Altro, è tutto un “farsi” Altro, farsi virale.
“Chi sono i miei interlocutori?”, si chiede chi si avvia
all’isolamento. L’interlocutore non si cerca, occorre divenire interlocutore,
cioè divenire statuto nel dispositivo dell’interlocuzione. Importa non qual è
il mio interlocutore, ma qual è il mio statuto nel ritmo della conversazione,
della narrazione, della lettura. Questo ritmo è la base dell’immunità: per
questo nessuna salute senza l’interlocuzione. Alla sua punta, interlocutore è
il lettore, chi restituisce con la lettura il testo della scrittura dell’esperienza,
di quel che della memoria si scrive. Senza lo studium inquisitorio, che
sostituisce, idealmente, l’interlocuzione con il “rigoroso esame”, con la
tortura.
L’interlocuzione è il dispositivo della comunicazione civile,
della ragione dell’Altro e del diritto dell’Altro che nessun diritto penale
totale può cancellare.