QUANDO IL FARE APPRODA AL PIACERE
L’Officina Meccanica Marchetti compie quest’anno
quarantacinque anni, operando nel settore della produzione di stampi per materie
plastiche, oggi molto penalizzato dalle nuove prescrizioni sull’utilizzo della plastica.
Per quanto siano ancora numerose le piccole e medie imprese che hanno
incominciato a investire nella ricerca di nuovi modi di produrre e di
utilizzare la plastica, sembra che aprire un’azienda in particolare in questo ambito
non sia la massima aspirazione per un giovane. Qual è la sua valutazione in
proposito? Non direi che aprire un’azienda non sia la massima aspirazione
per i giovani, penso semmai che i giovani non trovino la loro vera aspirazione perché
non hanno modo di capire quale sia. Quando provano a cimentarsi nell’impresa e
riescono a ingegnarsi – “mettersi in proprio” significa mettere il proprio
ingegno nell’impresa privata – si scopre che anche i giovani diventano
imprenditori, anzi diventano imprenditori proprio in quanto giovani, poiché
avviene in loro una sorta di cambiamento. Come possiamo pretendere che i
giovani siano propensi a divenire imprenditori se non hanno gli strumenti che
occorrono e, anche quando li trovano, sono osteggiati in tutti i modi? Quando
mai è accaduto che la scuola e la società abbiano dato loro le nozioni di che
cosa sia l’imprenditore? In nessun ambito vengono trasmesse queste indicazioni,
perché non sono nozioni accademiche, ma richiedono il rischio e la scommessa
propri a ciascuno. Per di più esiste questo modo comune di pensare secondo cui gli
imprenditori sono giudicati come qualcosa di negativo. Solo quando poi si entra
in questo “mondo” – più che il mondo degli imprenditori, lo chiamerei il mondo
di chi fa qualcosa, perché il termine imprenditore è generico – ecco che si
attua una specie di apertura mentale e si incomincia a intendere le cose in un
altro modo, a pensare molto di più e a dare valore alle cose, prima di tutto al
fare. Dunque, la parte più difficile del processo che porta ad aprire
un’impresa è innescare questo passaggio. Una volta che è stato innescato, le
soddisfazioni, a livello non solo materiale, sono tali che siamo motivati in
ciascuna occasione a migliorare quello che facciamo. Per cui, non direi che i
giovani non siano portati a fare, ma direi che i giovani non sono stimolati,
non sono istruiti o, più precisamente, non sono informati in questa direzione.
Basterebbe poco se, nel periodo della frequentazione della scuola, i giovani
avessero l’opportunità di parlare con chi ha intrapreso questa strada. Se ciò
accadesse, ci si accorgerebbe che i giovani si appassionano al fare. Come
possono appassionarsi a una cosa di cui hanno solo sentito dire e, tra l’altro,
solo in maniera ideologica, soprattutto nei media e negli istituti di formazione?
Particolarmente in questi ultimi, soprattutto in Emilia Romagna, è diffuso
il pregiudizio verso l’impresa… I giovani non hanno la possibilità di sapere
cosa significa qual è la soddisfazione che interviene facendo, anche perché c’è
ancora chi non vuole diffondere i valori dell’impresa. Viviamo, infatti, in una
fase in cui tutto è contro l’impresa, tutto è contro il fare. Sembra che il
mondo debba essere virtuale, cioè che sia possibile ottenere tutto senza sforzo.
Ci accorgiamo adesso che le notizie importantissime che riusciamo a ottenere da
Internet sono tanto immediate quanto labili, perché non lasciano il tempo per
essere valutate o ragionate. Dimentichiamo con la stessa immediatezza di quando
abbiamo letto.
Lei diceva poc’anzi che l’uomo è teso a fare sempre
meglio. Questo “fare sempre meglio” si può intendere come la via della salute,
come tensione in direzione della qualità? Sono convinto che anche la salute
fisica sia una questione di equilibrio.
Naturalmente possono intervenire fattori di malattia
incontrollabili, ma se noi intendiamo la salute nell’accezione più ampia,
quindi non soltanto medica, ci rendiamo conto di come la salute complessiva
della nostra vita sia una questione di equilibrio, mantenuto soprattutto dal
nostro cervello, ossia dal nostro modo di elaborare le cose, dal nostro modo di
sentirci appagati da quello che facciamo e dal tendere a fare sempre qualcosa
di meglio. Questa aspirazione a fare meglio favorisce la salute, perché
permette di attraversare alcuni momenti della vita, ovviamente non le malattie
gravi, che diversamente peserebbero sull’equilibrio dell’individuo.
E mi pare sia quello che lei pratica come brainworker.
Il brainworking non è per tutti, ma per ciascuno che
abbia l’istanza di qualità della vita attraverso il processo di valorizzazione di
ciò che fa. La cifrematica, come scienza della parola, constata come il fare
non è ideale, quindi ideologico. In che termini nella sua scommessa
imprenditoriale può dare testimonianza di salute? Io ho trovato salute
proprio quando gli obbiettivi che mi ponevo, che non erano fantascientifici o
macroscopici ma riguardavano la riuscita del programma della giornata,
costituivano uno stimolo che favoriva i miei interessi.
Questo approccio migliorava anche la salute fisica, perché
il desiderio di raggiungere alcuni obbiettivi spesso era utile a ridurre il
peso di altre situazioni gravose, che l’immobilismo avrebbe acuito.
Quale argomentazione potrebbe offrire a chi si pone la
questione di come combinare la salute con l’impresa? L’individuo è portato
a fare, a intraprendere, soprattutto per la propria soddisfazione personale
prima che per l’aspetto economico. Occorre fare le cose con piacere e questo
fare giova anche alla propria salute. Quando facciamo qualcosa di appagante, il
corpo ne risente e trova un suo speciale equilibrio. L’indicazione che posso dare,
allora, è quella di cercare e di fare qualcosa che piaccia e appaghi.