LE IMPRESE SIAMO NOI
Nell’ora del coronavirus, gli italiani devono avere paura? La paura della morte deve prendere il sopravvento sulle loro vite fino a distruggere il patrimonio di ricerca e d’impresa costituito in settant’anni di repubblica?
Gli italiani non devono avere paura della morte, ma della miseria, della povertà, della stupidità e dell’invidia, che alimentano guerre, malattie e devastazioni nella vita di uomini e donne impegnati a compiere uno sforzo costante per dare un contributo alla civiltà della parola, perché la legge della giungla sia lasciata ai suoi abitanti.
E, nell’ora del coronavirus, la civiltà della parola – quella in cui, come diceva Niccolò Machiavelli, l’industria “vale più che la natura” – esige un approccio intellettuale alle questioni che i cittadini si pongono. Un approccio che è innanzitutto scientifico, quello lasciatoci in eredità da Leonardo da Vinci, che ci costringe alla precisione, al calcolo, al ragionamento, caso per caso, e aborre le generalizzazioni, le approssimazioni e l’uso dell’analogia nel trarre conclusioni.
Quanta approssimazione, invece, nella contabilità dei decessi per coronavirus, basata su dati insufficienti, raccolti con un metodo d’indagine che gli stessi esperti di statistica ritengono inadeguato, in cui i tamponi vengono eseguiti soltanto nei casi sintomatici. E quante generalizzazioni nelle cosiddette misure adottate per fermare l’epidemia, che si limitano al contenimento, senza una strategia e senza una distinzione fra una città e l’altra, una regione e l’altra, una fase e l’altra.
E, adesso, mentre nei nostri centri storici spopolano gli animali selvatici – e qualcuno dice che era l’ora di “riprendersi ciò che noi avevamo loro tolto” – “Il Corriere della Sera” del 24 marzo 2020 intitola l’intervista a un noto virologo “Abbiamo voluto difendere il Paese dei balocchi e l’economia anche di fronte alla morte”.
È un moralismo di cui in questo momento non avevamo proprio bisogno. Perché l’economia (leggi “il profitto”) dovrebbe essere posta in alternativa alla morte? Se l’economia è il lavoro, non c’è questa alternativa tra il lavoro e la morte. O, forse, c’è, nel senso che senza il lavoro c’è la morte civile. Ma lo sanno i cultori della morale populista che un mese di cassa integrazione costa al nostro paese 13,5 miliardi? E lo sanno che molti di quei milioni di lavoratori rischiano di tramutarsi in disoccupati, se continua la politica dei blocchi? Non sappiamo quanto tempo e quanti miliardi occorreranno per rimbastire il tessuto economico costituito in tanti decenni di battaglie e d’impegno quotidiani da parte di milioni di persone che hanno vissuto coltivando il sogno di una civiltà della parola. Ricacciate nella giungla, senza prospettive, alimenteranno inevitabilmente la guerra civile: ne abbiamo già le prime avvisaglie in questi giorni.
E, poi, sarebbe il momento di smetterla con questi proclami di anime belle che attaccano le imprese con beceri pregiudizi ottocenteschi sul mercato come luogo del “profitto a tutti i costi”: soltanto allo stato importano la salute e la vita dei cittadini? Infatti, preferisce promettere gli aiuti (o l’elemosina?), anziché lasciarci lavorare, lodare l’eroismo dei medici, anziché fornire loro i dispositivi di protezione, di diagnosi e di cura, e mostrare cordoglio per i defunti, piuttosto che mettere in campo con urgenza una strategia per evitare che aumentino.
Chi volesse visitare le aziende moderne (ormai la maggior parte in Italia) potrebbe arrivare a desiderare di viverci in questo momento, tanto sono attente all’igiene, alla salute e alla sicurezza, al punto che spesso hanno anticipato le disposizioni e i protocolli dell’Istituto Superiore della Sanità, a volte, scontrandosi persino con i sindacati, che ritenevano eccessive per la violazione della privacy dei lavoratori alcune precauzioni come, per esempio, misurare la temperatura all’ingresso tutte le mattine. Per questo siamo sicuri che si possa trovare il modo perché riaprano la maggior parte delle aziende, senza distinzione fra attività essenziali e non necessarie: non esiste un’impresa in Italia che abbia al suo interno tutto ciò che le occorre per la produzione. “Quando siamo stati convocati – riferiva il segretario della Ggil Maurizio Landini –, il governo ci ha detto quali sono le attività essenziali: sanità, agroalimentare, farmaceutica, servizi generali, telecomunicazioni, servizi postali. Mettere a rischio la salute per attività non essenziali è un errore clamoroso”. Un sindacalista, però, dovrebbe sapere che nel nostro paese la catena dei fornitori è talmente articolata che è impossibile chiudere un’azienda senza avere ripercussioni sull’intero tessuto industriale: l’industria agroalimentare ha bisogno della meccanica, che non fabbrica solo trattori, ma impianti e motori per le industrie, e la meccanica ha bisogno delle acciaierie, senza cui vengono a mancare i pezzi di ricambio per la manutenzione dei motori, quindi la fabbrica agroalimentare si ferma.
Il sindacato non può nutrirsi della contrapposizione fra stato e mercato, perché in Italia non ha motivo di esistere: la storia e l’esperienza industriali italiane sono tutt’altra cosa rispetto a quelle degli altri paesi europei. Il marxismo non è nato in Italia, ma a opera del filosofo tedesco Karl Marx, sostenuto economicamente da Friederich Engels, un altro filosofo tedesco il cui padre era proprietario di una grande industria tessile in Inghilterra. La loro giusta lotta era soprattutto contro le condizioni di lavoro disastrose di milioni di persone impiegate in massa come bestie da soma. In Italia, tuttora, le industrie di maggiori dimensioni non superano le diecimila persone e rappresentano soltanto il 5 per cento del tessuto economico del paese. Per il resto, ci sono piccole e medie imprese a gestione più o meno familiare, dove i collaboratori sono considerati quasi membri della famiglia. L’esempio che ha ispirato l’industria italiana è quello delle botteghe del rinascimento, dove non c’era la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, non c’era la catena di montaggio, ciascuno faceva, ricercava, indagava, analizzava, inventava, secondo l’occorrenza della giornata e le commesse dei clienti, e ciascuno, non soltanto il maestro, traeva soddisfazione dal proprio lavoro.
Quindi, le ideologie che hanno attaccato, e tuttora attaccano, l’impresa e il profitto in Italia, come se fossimo in Germania o in altri paesi, dove l’idea di dominio è sempre stata diffusa, hanno sbagliato mira. Uno sbaglio che purtroppo ha avuto effetti deleteri per la nostra economia.
Le nostre imprese sono baluardi di civiltà: instaurando dispositivi di parola, di riuscita e di soddisfazione, ci aiutano a costruire città di arte e invenzione, a debellare i conflitti, ad accogliere ciascuno secondo la propria particolarità, a dissipare l’invidia, la gelosia, il razzismo e il fondamentalismo, perché coltivano il terreno dell’Altro.
In questo momento, hanno bisogno di noi, dei nostri appelli a farle lavorare, della nostra indignazione per il disprezzo che l’oscurantismo nutre verso di esse, dimenticando che le imprese siamo noi, sono i nostri vestiti, la nostra cucina, i nostri giochi, i nostri viaggi, le nostre case, le nostre automobili, i nostri computer, i nostri telefoni, le nostre strade, la nostra vita.
30 marzo 2020