IL FINALISMO POLITICAMENTE CORRETTO CONTRO L’OCCORRENZA
Il politicamente corretto è un’ideologia liberal-progressista
e multiculturalista affermatasi alla fine degli anni ottanta nelle università americane.
Chi vi aderiva si proponeva inizialmente di modificare il linguaggio
comunemente usato, in particolare quei termini che si presumono discriminatori
nei confronti delle minoranze, come nel caso del termine “negro”, ritenuto
discriminatorio dal punto di vista razziale, sostituito con afro-americano. Una
volta imposto il linguaggio, gli ideologi del politicamente corretto hanno
avuto gioco facile a imporre determinati standard comportamentali, dapprima sanzionando
moralmente fino all’intimidazione chi non li osserva, per poi trasformare la
loro violazione in reati attraverso un incessante lavoro di lobbying e
di propaganda, anche se questi comportamenti non arrecano alcun danno alle
persone. La parola progresso è spesso associata ad avanzamento, si pensi al
progresso tecnologico che semplifica la nostra vita migliorandone molti aspetti.
Ma, secondo l’economista austriaco Ludwig von Mises, “Il
concetto di progresso e di regresso ha senso soltanto all’interno di un sistema
teleologico di pensiero. In tale schema, è ragionevole chiamare progresso
l’avvicinamento allo scopo a cui si mira e regresso il movimento in direzione opposta.
Senza il riferimento a qualche azione del soggetto e a qualche scopo, entrambe
queste nozioni sono prive di significato”. Pertanto, quello di progresso è un
concetto finalistico che consegna al pianificatore di turno il potere di
determinare a priori ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e di raggiungere i
propri scopi a qualsiasi costo, anche quello di sterminare milioni di persone,
come dimostrano i totalitarismi del ventesimo secolo.
Quella finalistica è un’idea di bene rappresentato (la meta
da raggiungere) assai cara agli ideologi, quando, al contrario, la vita impone
di risolvere i problemi man mano che si presentano, attenendosi all’occorrenza.
E chi si attiene all’occorrenza è il borghese, il ceto medio, la cui etica ha
permeato tutto l’Occidente, non solo le figure dell’imprenditore, del
commerciante, del professionista, ma anche la persona comune, primi fra tutti i
genitori nei confronti dei figli. Quest’etica, purtroppo, è progressivamente
venuta meno a partire dal secondo dopoguerra, perché sottoposta a critiche incessanti,
soprattutto nel periodo della contestazione a partire dagli anni sessanta,
quando la libertà venne intesa con il fare ciò che si vuole.
Questa concezione della libertà, peculiare al pensiero
progressista, si è estesa anche al campo liberalconservatore.
E, se oggi ci troviamo a dover scegliere tra
politicalcorrettisti e sovranisti, è perché i liberal-conservatori, vincitori
della guerra fredda sul piano politico ma non su quello culturale, hanno
riassunto i propri valori di libertà nel solo imperativo categorico di fare i
soldi. Ossia, l’etica del successo, che altro non è che la riuscita rappresentata
da comportamenti prestabiliti e socialmente codificati.
Ma il successo arride a pochi, mentre la riuscita è per
ciascuno che si impegni attenendosi all’occorrenza. E, nel mondo degli affari
tanto criticato dai politicalcorrettisti, vige l’etica della riuscita. Il
secondo non è mai il primo degli ultimi e anche le aziende più piccole, se
fanno profitti e operano nel mercato, giungono alla riuscita, nonostante siano
lontane dai riflettori, come testimoniano gli imprenditori, spesso titolari di
piccole o medie imprese, che intervistiamo sulla rivista “La città del secondo
rinascimento”.
Per lungo tempo la sinistra ha difeso gli interessi degli
operai e questo le è valso il rispetto degli avversari politici, perché gli
operai sono sempre stati rispettati anche dai borghesi, in quanto, come questi ultimi,
dediti al lavoro produttivo e alle fatiche della fabbrica. Ma, con il venir
meno della classe operaia come serbatoio elettorale, la sinistra politica e
intellettuale sta cercando un suo sostituto, in particolare nell’immigrato,
nell’omosessuale e nella donna. Tuttavia, a differenza dell’operaio, che
esisteva prima che la sinistra lo scoprisse, queste tre categorie vengono
idealizzate, quasi create in vitro tramite quelli che in sociologia vengono
chiamati idealtipi.
L’immigrato inteso in modo ideale è la figura su cui oggi si
accendono le discussioni più aspre, perché i politicalcorrettisti lo
idealizzano standone a debita distanza, costringendolo ad alloggiare nei
quartieri più difficili e in condizioni precarie. Aprire idealmente le porte a
tutti gli immigrati del mondo è facile, quando delle loro esigenze concrete se
ne occupa qualcun altro.
E lo stesso vale per la questione omosessuale, affrontata
sempre a partire da argomenti come il matrimonio gay o le adozioni da parte di
coppie omosessuali, trascurando magari gli aspetti più concreti relativi alla
battaglia contro i pregiudizi a tutt’oggi esistenti. Occorre che gli
omosessuali possano condurre una vita scevra da violenze o discriminazioni
ingiuste, non imporre un’ideologia basata sul capriccio di un’élite di presunti
illuminati.
Discorso analogo vale per le donne, il cui maggior problema
è conciliare le esigenze di famiglia e lavoro. Ma la narrazione femminista svicola
sull’argomento, perché preferisce concentrarsi ideologicamente sulle esperienze
delle donne in politica, salvo non soffermarsi mai sulla riuscita politica di
Margaret Thatcher.
Forse perché la Lady di ferro non ha mai perso il suo tempo
a lamentarsi o a farsi vittima del presunto strapotere degli uomini. Lei,
semplicemente, ha fatto quel che occorreva per il proprio paese, senza
preoccuparsi del consenso immediato. E per questo è riuscita dove altri hanno
fallito.
Pertanto, occorre sempre considerare le questioni in modo
contingente, evitando il modo di ragionare ideologico, di cui il politicamente
corretto altro non è che la forma assunta in questo momento storico.