UN SOGNO DI 35 ANNI... E OLTRE
Quando ha fondato la SIR (Soluzioni Industriali Robotizzate),
nel 1984, Luciano Passoni, suo padre, aveva un sogno: diffondere l’automazione
il più possibile per alleviare la fatica dell’uomo nei lavori più pesanti e
ripetitivi. In trentacinque anni avete onorato questo sogno, installando oltre
3800 impianti nel mondo. I robot SIR svolgono i loro meticolosi compiti in
alcune delle più importanti aziende costruttrici di automobili, aerei e altri
beni di produzione industriale. Qual è la riuscita e quale l’approdo nel vostro
itinerario? La riuscita, in un’azienda come la nostra, è identificabile nell’obiettivo
di breve e medio termine. Poiché la nostra produzione è di tipo prototipale, ciascuna
singola commessa rappresenta una sfida per nulla scontata: soltanto alla
conclusione del processo progettuale e costruttivo possiamo essere certi del
buon esito della soluzione proposta. La riuscita ci accompagna quindi ciascun giorno
e in ciascuna sfida: non riuscire una, due o tre volte comporterebbe la fine
del nostro percorso imprenditoriale. Tuttavia, affinché un’azienda possa sempre
perseguire un processo di evoluzione e rinnovamento, affinché possa sempre
creare nuove opportunità di crescita non solo per i propri clienti, ma anche per
i suoi stessi collaboratori, la semplice riuscita non basta. Occorre un progetto
a lungo termine, un’ipotesi di direzione, in altre parole, un approdo verso cui
tendere. L’approdo s’identifica quindi con il sogno imprenditoriale, quello
stesso sogno che mio papà aveva maturato tanti anni or sono. Va sempre tenuto
presente che l’approdo non rappresenta un porto sicuro in cui sostare per godere
dei risultati raggiunti, correndo il rischio di sentirsi “arrivati” e di
dormire sugli allori: simboleggia invece una meta in continuo divenire, ed è
proprio questo suo intrinseco carattere a rendere l’approdo così interessante.
La tensione verso il sogno è il vero motore delle dinamiche aziendali. Per SIR,
come diceva lei, l’approdo è identificabile nella diffusione dell’automazione
su larga scala: per raggiungere questo obiettivo e questo fine aziendale, stiamo
mettendo in atto un progetto d’internazionalizzazione in differenti mercati,
come per esempio la Cina, paese di origine della multinazionale da cui siamo
compartecipati.
SIR, che possiede uffici commerciali in Germania e negli
Stati Uniti, ha avviato nel paese del Dragone una vera e propria sede
operativa, forte di 52 collaboratori, dedicata alla realizzazione di impianti
robotizzati per il mercato domestico cinese. Il nostro obiettivo, al momento,
s’identifica nella crescita di ciascuna filiale, operando in modo che ciascuna
di esse divenga nel tempo una vera e propria “SIR”, indipendente a tutti gli
effetti, simile in tutto e per tutto alla casa madre, gestita da manager possibilmente
italiani che siano in grado di seguirla con passione ed entusiasmo e con una
direzione imprenditoriale e strategica simile alla nostra.
In pratica, vi occorrono manager con un approccio
imprenditoriale, che riescano a “inventare” una SIR in ciascuno dei paesi in
cui deciderete di attuare il processo d’internazionalizzazione… Non è
facile trovare manager adeguati, soprattutto italiani, disposti a dedicarsi a
tempo pieno allo sviluppo di una filiale estera, soprattutto perché molti di
essi hanno legami familiari o affettivi difficili da ignorare.
Molto dipende dal paese in cui dovranno trasferirsi: in genere
gli italiani si spostano volentieri in America o in Germania, mentre sono più
restii a lavorare nelle aree asiatiche, dove la cultura è decisamente differente
da quella europea e dove, alle difficoltà di comunicazione linguistica, si
aggiunge una forte competizione interna sul mercato del lavoro e una certa
reticenza a lasciare il controllo di una struttura a uno straniero o a renderlo
partecipe di informazioni riservate. Le stesse regole e i modi di rapportarsi, anche
a livello commerciale, sono differenti, per non parlare poi dello stile di vita
completamente agli antipodi rispetto al nostro. Sembra un aspetto banale o
forse superato in un contesto fortemente globalizzato, ma chi vive a Modena o
in qualsiasi altra città italiana ha a disposizione un’offerta culturale,
artistica e sociale impensabile altrove. Forse non ci rendiamo pienamente conto
di quanto siamo fortunati a essere cittadini europei in questo momento storico:
non credo vi sia attualmente al mondo un posto migliore in cui essere nati o risiedere.
Non si tratta soltanto di tutela del singolo individuo, di garanzie sociali o
di welfare, ma anche di tutte quelle piccole cose che evidentemente tanto
piccole non sono. Mi riferisco al piacere diffuso di passeggiare in una piazza
del 1200, d’incontrare persone di cultura affine, di gustare il miglior cibo
del mondo, di visitare un borgo, una mostra, un sito archeologico, di vivere in
paesaggi naturali invidiabili, di avere a portata di mano così tante opportunità
in uno spazio geografico ristretto. Tutte queste particolarità, specie se prese
nella loro globalità, tipiche dell’Italia e in genere dell’Europa, non sono
affatto scontate nel resto del mondo. Sono aspetti che possono sembrare futili,
eppure, per noi europei, sono essenziali. Gli americani, al contrario, si
spostano più tranquillamente dal loro paese, perché non sentono la mancanza di un
contesto culturale forte.
Infatti, è curioso che i nostri nonni emigrati in
America, pur avendo soltanto la licenza di quinta elementare, riuscissero a fare
business. Questo perché vantavano un patrimonio culturale secolare che si
respira nella lingua e nelle opere d’arte da cui siamo circondati nel nostro
paese… È vero. E questo vale anche per la capacità d’ingegnarci: la
ereditiamo da una cultura millenaria in cui l’individuo e il suo talento hanno sempre
rappresentato il cardine della società. In particolare noi italiani non
proveniamo da un’esperienza storica basata su alti ideali politici e sociali,
come per esempio i paesi in cui è stato sperimentato il socialismo reale. La
nostra società è basata sulla valorizzazione del singolo e sull’idea che il
talento e la distinzione siano decisivi nel nostro agire sociale.
Nella cultura europea importa la riuscita e, in ultima istanza,
anche l’approdo di ciascuno, mentre in altri paesi importa la riuscita
dell’intero impero o dell’intera nazione: si tratta di una differenza culturale
abissale.
Quindi un manager italiano che si trasferisce, ad
esempio, in Cina deve adeguarsi velocemente al diverso contesto lavorativo e
sociale… Un manager che gestisce una realtà produttiva in Cina deve
adattarsi alla presenza di una forte e consolidata gerarchia, in cui le
decisioni che arrivano dall’alto non possono essere messe in discussione come accade
qui. Chiaramente, cercherà di dare il proprio contributo, come tutti noi siamo
abituati a fare, ma dovrà saper accettare di non essere sempre ascoltato,
sebbene tale contributo possa essere migliorativo. La peculiarità e il valore
aggiunto che il singolo può apportare, grazie alla sua intelligenza e al suo
talento, potrebbero non essere richiesti, oppure potrebbero costituire un
intralcio alle procedure organizzative standardizzate.
Ne consegue che non è immediato trovare figure capaci di adattarsi
a questo ambiente e che possano aiutarci nel nostro viaggio verso
l’internazionalizzazione.
Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, il
gesuita Matteo Ricci portò in Cina il Rinascimento. Voi imprenditori potreste
essere identificabili come i nuovi missionari che, attraverso l’impresa,
portano la cultura, l’arte e l’ingegno in un paese la cui storia industriale è
abbastanza recente rispetto a quella europea, iniziata nel Settecento? Probabilmente
abbiamo svolto questa funzione negli ultimi trent’anni, ma al giorno d’oggi la Cina
ha ormai recepito molto da un punto di vista tecnologico, anche se forse il
divario non è ancora colmato appieno, specie nelle attività che presuppongono
un approccio prototipale. Grazie al suo immenso potere economico, la Cina ha
potuto acquistare un enorme know-how dai paesi occidentali e ora vanta una notevole
produzione di beni di alta tecnologia in tutti i campi: si pensi, per esempio,
al settore aerospaziale o a quello elettronico. Anche da un punto di vista
formativo, i numeri sono impressionanti: il paese del Dragone vanta università
enormi in cui sono stati formati (e continueranno a esserlo) milioni di
ingegneri.
Questo sviluppo industriale incredibilmente veloce ha però
un rovescio della medaglia: a parte gli inevitabili squilibri sociali e ambientali,
si nota ancora la mancanza, che verrà certamente colmata col tempo, di un vero
valore aggiunto apportato alla tecnologia consolidata. È probabile che questo
sia dovuto al fatto che la tecnologia presuppone una storia di ampio respiro e
un’esperienza di base, non solo tecnica ma anche e soprattutto culturale, che
deve vivere di successi ed errori distribuiti nel tempo per poter produrre vero
progresso. Non è l’Asia ad aver sviluppato i presupposti della rivoluzione industriale
centocinquant’anni fa, con tutta la tecnologia che ne è conseguita. Questa
assenza di un cammino tecnologico esperienziale si avverte chiaramente nei
processi produttivi asiatici. Tanto per fare un esempio elementare, non è
sufficiente impiegare centinaia di ingegneri esperti in tecnologia del veicolo,
sottratti da altre case e altri marchi, per poter affermare di essere capaci di
costruire un’automobile di successo e di alta qualità. Un prodotto risulta vincente
se e solo se lo è anche il processo produttivo atto a realizzarlo.
Raggiungere l’ottimale in un manufatto presuppone una
conoscenza diffusa sul territorio del prodotto e del processo, conoscenza che
vive di talenti, aziende, imprenditori e condizioni sociali e geografiche
favorevoli, spesso uniche, irripetibili, non trasportabili altrove. Non è un caso
che la Motor Valley italiana, dove si costruiscono auto da sogno, sia qui, e
che solo qui, a Modena, in Emilia, sia riuscita a fiorire sino a divenire
un’area di eccellenza che tutto il mondo c’invidia.