DOVE APPRODA IL VOLO DELLE STELLE
“Le stelle volano come lucciole secondo il loro numero”. Con
questo annuncio esordisce il capitolo La costellazione, l’adiacenza, il caso
del libro di Armando Verdiglione Urkommunismus.
La paura della parola. Per l’autore, “numero” (il
numero della vita, il numero che nessuno sceglie, il numero che non si pensa di
avere o di essere) vale anche “particolarità”, “dissidenza”. Le stelle (le
cose, le parole) entrano nei nostri sogni, negli incubi, nelle curiosità e
nelle costruzioni a occhi aperti: volano. Le comprendiamo, le tocchiamo? Vanno di
qua e di là, vanno e vengono. Stravaganti, extra-vaganti, come lucciole.
Chi può fermarle? Volano forse per noi? Narcisismo delle
stelle. Nel loro volo c’è una soddisfazione non economizzabile.
Le stelle non sono prese nella nostra comprensione perché seguono
la dissidenza della parola, una “sede” che non è mai fissa, non è mai immobile.
Dis-sidenza: le stelle non risiedono, ma dis-siedono. Il loro volo segue la
dissidenza. Volano non nel modo che noi vogliamo, ma nel modo della loro
tensione linguistica, il modo del gerundio: volano volando.
Stravaganza del volo. Assenza di convenzionalità, di canone.
Noi “sentiamo” il volo delle stelle, delle cose, delle
parole: questa la sensazione che mai diventerà sentimento, soggettività!
Sentiamo l’anomalia del loro viaggio, della combinazione di giochi e invenzioni
e delle combinatorie linguistiche, che non lasciano niente e nessuno al suo
posto (vivendo, parlando, incorriamo in equivoci, ambiguità, malintesi; in
sbagli di conto, sviste, errori di calcolo): queste le sensazioni della vita,
nella veglia, nel sogno, nell’incubo. Perché sogniamo di volare o di
precipitare? Per il nomadismo delle cose e delle parole.
Il nomadismo intellettuale.
Niente più del sogno ci fa constatare che le parole non
stanno al loro posto, non stanno nella convenzione di un ruolo grammaticale
normativo, di un ruolo sociale. Negli scritti fondatori delle dottrine
misteriche di oriente e di occidente, il tentativo di situare le parole dei
sogni in un ordine sacrale per tutte le convenienze viene affidato alle caste
di funzionari e professionisti che lo esercitano attraverso l’interpretazione
dei sogni.
Nella Bibbia, leggiamo la storia di Giuseppe, schiavo in
Egitto, che risponde alla domanda del faraone sul significato dei terribili
sogni che lo avevano angustiato nella notte.
Gli indovini e i sapienti egiziani di corte interpellati in
precedenza non erano riusciti a trarne vaticini che tranquillizzassero il
faraone: erano invischiati nel blocco mentale della paura di perdere la sedia a
corte.
Giuseppe non era egizio, non apparteneva alla casta, era
ebreo, un nomade che aveva attraversato il deserto leggero, con il solo
bagaglio di una cultura dissidente dalle burocrazie vigenti nel potere egizio.
E Giuseppe dà un’altra lettura degli elementi del sogno. Non ha paura di
perdere uno scranno, un seggiolino, perché non ce l’ha. Nomadismo storico il
suo, perché nomadismo linguistico.
Constatiamo la navigazione nomade anche nel processo
intellettuale proprio dell’umorismo o del witz: qualcosa sta al posto di
qualcos’altro, in un processo di sostituzione per condensazione (per scambio
sintattico, e qui c’è l’aumento di valore, l’auctoritas, l’elaborazione)
o di sostituzione per spostamento (per scambio frastico, e qui il valore
abbonda: è l’infinito della serie frastica, di trovata in trovata). L’ebreo
Freud, nel suo testo intorno all’interpretazione dei sogni, indica la
condensazione e lo spostamento come procedure linguistiche del sogno. È l’altra
lingua, la lingua della ricerca, la lingua del patrimonio.
Ma oltre questa formulazione Freud non va: i dispositivi che
introduce nelle strutture che sorgono lungo l’insegnamento e la formazione
della psicanalisi, fra Vienna, Parigi, Zurigo, gli USA, Londra, restano
dispositivi “patrilineari”, dispositivi rispetto all’autorità. È tentato dalla
parola cattolica, dal lusso del suo pragma (dalle virtù dell’indulgenza,
dell’umiltà e della generosità), ma avverte come pericolo la libertà
dell’influenza della parola, e se ne ritrae, per non mettere in questione l’autorità
personale, soggettiva. Così Freud manca il registro dell’impresa intellettuale,
il registro dell’influenza, della fluenza, dei flussi. E rimane un fondatore
che sente la sua autorità di “archeologo” dell’inconscio messa in pericolo
dagli allievi che aspirano a riformare il testo del maestro (come nel caso di
Jung).
Occorre arrivare agli anni settanta del novecento perché
emerga sullo scenario internazionale un’altra elaborazione della linguistica
del volo delle stelle: è quella di Armando Verdiglione, intellettuale e
imprenditore, che introduce un altro registro per la scrittura del volo, oltre
al registro sintattico e al registro frastico: è il registro dello scambio
pragmatico, lo scambio, per dir così, inventivo, nell’intersezione di
condensazione e spostamento. La lingua di cui si tratta qui è la lingua altra,
la lingua dell’arte e dell’invenzione. E la linguistica del viaggio è questa:
l’altra lingua e la lingua altra. La dissidenza non diventa una controlingua,
se non per una parodia, dove la vanità si aggiunge alla vanità. Non aspira a
soppiantare un sistema di padronanza linguistica per instaurarne un altro,
miglior padrone del precedente, restando nel canone dell’alternativa
padroneschiavo, amico-nemico. La direzione del viaggio secondo la dissidenza
non va verso il luogo ideale dove, con la calma raggiunta, non si sentano più il
volo e il vento delle stelle, il loro “disturbo”.
Il nostro viaggio sulle ali del vento delle stelle, delle
cose, delle parole non va verso l’Uno, non è nel verso dell’Uno, nell’universo.
Infatti, l’annuncio con cui abbiamo esordito prosegue così: “Le stelle volano
come lucciole, secondo il loro numero. Non corrono verso l’uno”. Ci apprestiamo
a dormire senza l’assistenza degli indovini, senza il conforto delle loro soluzioni,
il sonno arriva ed ecco che l’universo non c’è più, perché il sonno assegna
alla lingua altra (la lingua del sogno e della dimenticanza) il “passaporto” del
viaggio. Anche il silenzio, come il sonno, come la contingenza, come la
sessualità, assegna alla lingua altra, la lingua dell’impresa, la lingua
diplomatica, il passaporto di un viaggio in direzione della novità, della
novella, del brevetto, dell’opera d’ingegno. E le cose non corrono più verso
l’uno (verso l’unità), verso l’utopia, il “puro nulla” delle dottrine misteriche
di oriente e di occidente, il luogo puro dalle sensazioni del volo e del vento
delle stelle.
E tutta una letteratura utopica, sorta per il fascino
esercitato dal luogo puro dal disturbo della parola, affolla gli scaffali delle
biblioteche del mondo.
Così per le dottrine orientali, dai Veda al
buddhismo, al confucianesimo.
Così anche per il poema babilonese Enuma Elish (XII
sec. a.C.), la narrazione della teomachia, della guerra degli dei che ha dato
origine alla creazione del mondo: il padre degli dei scatena la guerra perché
disturbato dalle voci dei suoi figli che giocano, e per recuperare il silenzio
del nulla primordiale. Negli Atti degli apostoli (I-II sec. a.C.), Paolo
di Tarso, abbacinato dalla visione del puro nulla di Dio e caduto da cavallo,
fa la sua conversione da persecutore dei cristiani a moralizzatore di se stesso
e del popolo di Dio, inaugurando la lunga fascinazione del radicalismo e del
purismo che passa per Agostino d’Ippona per arrivare a Lutero e oltre, fino al radicalismo
e al purismo dell’odierno pensiero unico strumentale al potere dell’oligarchia
finanziaria e militare mondiale. Il vento delle stelle disturba il pensiero
unico, disturba la vita penale e penitenziaria che assicuri la parità dei
rapporti sociali, modellati sulla base della natura mercenaria del rapporto con
Dio: Dio dà la giusta mercede alla sofferenza e al sacrificio del credente,
esattamente la giusta mercede, nulla di più e nulla di meno.
Parità della bilancia e utile a zero del bilancio. Senza resti
che disturbino l’eutanasia, la buona chiusura della partita della vita.
Le stelle volano, vengono e vanno, ma non verso il puro
nulla (verso la dissolvenza, la soluzione, la salvezza), ovvero verso l’approdo
ideale del pensiero unico. La dottrina medica offre i suoi rimedi, le sue
risoluzioni e soluzioni al disturbo del viaggio, agli equivoci, alle sviste, ai
malintesi. Ma il viaggio, parlando, vivendo, procede di equivoco in equivoco,
di sbadataggine in sbadataggine, di malinteso in malinteso. Perciò ciascuno
guarisce a suo modo, senza soluzione: questo è il cammino artistico, il cammino
“terapeutico”.
E la “malattia” non è un guaio mortale, per risolvere il
quale ci obblighiamo a assumere la pena del pensiero unico, dell’uni-pensiero, dell’universo,
quindi a diventare sordi al volo e al vento delle stelle, perciò a morire prima
di morire: la “malattia” (“malato”, male aptus, potrebbe tradursi con
dis-adatto) è ancora una chance di trovare il modo artistico di guarire, il
modo di camminare ad arte.
La cura (la cura del fare, la cura del tempo nel fare) si fa
dell’intersezione di arte e d’invenzione, di cammino artistico e di percorso
culturale. Il percorso culturale è il nostro vero corpo, il corpo della parola.
Chi redige i risultati della sua ricerca, per esempio in un curriculum vitae,
redige gli elementi del suo percorso: in quali istituzioni si è formato, con
quali interlocutori, a quali risultati è approdata la ricerca, a quali
dispositivi societari ha dato adito l’impresa, con quali novità, brevetti e
inediti. Un percorso di specificazione e qualificazione. Non c’è da dare la
parola al corpo, perché, naturalmente e innatamente, si dimostri, si verbalizzi
nel cosiddetto linguaggio del corpo (e nei tatuaggi), ovvero s’incarni sacrificalmente
(come predica l’iniziazione dottrinaria). E le odierne dottrine sociali non sono
altro che trattati dell’iniziazione al mistero. Il nostro corpo non è
sottoposto alla visione giudicante e pregiudicante, è “altrove”, nelle
insopprimibili istanze della ricerca e dell’impresa. E il volo, il viaggio
(percorso e cammino), con la scrittura approda al piacere.