MORASTELLO E LA RIVA, TRADIZIONE E NOVITÀ NEI VINI DELL’APPENNINO TOSCO-EMILIANO
Negli ultimi anni, il comparto agroalimentare è risultato
strategico per l’economia italiana, in cui le esportazioni di vini made in Italy
giocano un ruolo di primo piano. In questo contesto è una novità assoluta la
produzione di vini di qualità nell’Appennino bolognese e modenese, di
cui il Morastello IGP è fra i più apprezzati da esperti e neofiti del settore.
Com’è nata l’idea? Nel 2012, io e altri soci abbiamo deciso di dare vita a
un progetto specifico per rilanciare la tradizione vitivinicola dei nostri
nonni. Nell’Alto Appennino tosco-emiliano, infatti, proliferavano piccoli
vigneti già dai primi del Novecento, con una produzione di almeno 8000 quintali
d’uva, perché i contadini producevano in zona il vino necessario al fabbisogno
familiare.
Fra gli anni settanta e ottanta, in molti hanno reputato più
conveniente dedicarsi alla produzione di Parmigiano Reggiano. Ma, in alcuni
terreni, qualche vite ha resistito all’incuria e proprio da qui è partita la
nostra avventura. Oggi proseguo il progetto con l’obiettivo di coltivare almeno
il 40 per cento dei 1200 quintali di uve autoctone ancora esistenti nell’area.
Non a caso i vini Valli del Morastello sono stati
riconosciuti prodotti IGP… Il nome Morastello identifica il Ciliegiolo, un
vitigno toscano importato nell’Alto Appennino, quando avveniva lo scambio delle
merci al confine con la Toscana. Noi scambiavamo la farina di castagno e i toscani
fornivano le barbatelle di Ciliegiolo.
È stato naturale, quindi, chiamare il vino rosso
dell’Appennino Morastello IGP, che nasce dalla miscela delle uve autoctone
utilizzate dai nostri nonni, Ciliegiolo, Negrettino, Lambrusco, Barbera e Uva
Tosca. Per la produzione del bianco frizzante, La Riva IGP, abbiamo miscelato,
invece, alcuni vitigni Pignoletto con Trebbiano e Malvasia, coltivati nell’area
compresa fra il Corno alle Scale e il Cimone. Non a caso la nostra etichetta
richiama il campanile di Rocca Corneta, frazione di Lizzano in Belvedere, in
provincia di Bologna e al confine con la provincia di Modena.
I nostri vitigni sono situati a 500- 600 metri d’altezza,
zone ideali per coltivare uve per la produzione di vino biologico. Le uve
coltivate in pianura, infatti, sono soggette a un elevato tasso di umidità, che
causa la proliferazione di peronospora e oidio, funghi che invece in montagna
attecchiscono meno, grazie alla maggiore ventilazione. Ecco perché sono
necessari pochi trattamenti di rame e di zolfo e questo contribuisce alla
produzione di un vero vino biologico.
Inoltre, la coltivazione di vitigni nelle aree montane è
favorita anche dall’innalzamento della temperatura media degli ultimi anni.
Il vostro vino è prodotto con il “metodo ancestrale”. In
cosa consiste? Questo metodo, rilanciato dalla Cantina TerraQuilia dove
vinifichiamo, riprende l’antica tradizione dei nostri contadini ed è
caratterizzato dalla rifermentazione naturale del vino imbottigliato. Inoltre,
noi siamo fra i pochi produttori di vini a indicare sulle nostre etichette la
quantità di solfiti totali: soltanto 29 mg/litro, benché le quantità massime di
solfiti ammesse nella Regolamentazione CE 203/2012 per il vino biologico vadano
dai 100 mg/litro per i vini rossi ai 150 per bianchi e rosati. L’uva produce,
infatti, una piccola percentuale di anidride solforosa, un conservante del
vino, ma l’aggiunta di dosi elevate di solfiti può causare mal di testa dopo
l’assunzione, perché toglie ossigeno al sangue.
Lei ha attività anche in altri settori nell’Appennino
bolognese. Cosa occorre per il rilancio delle aree montane? Un primo modo
per rilanciare l’economia dell’area è proseguire la cultura vitivinicola
dell’Appennino tosco-emiliano.
Il vino era diffusissimo, come conferma la testimonianza
forse più nota del cantautore Francesco Guccini, che ha ricordato, in
un’intervista di qualche anno fa, l’usanza di offrire il Morastello anche ai
bambini. Io e mio fratello, sin dai cinque anni di età, abbiamo partecipato
alla produzione del vino destinato al consumo familiare, pigiando l’uva con i
piedi nelle tinozze in legno di castagno.
Recentemente, l’Università di Bologna ha promosso una
ricerca per studiare le cause dello spopolamento delle aree montane e ha
constatato che esperienze come la nostra, grazie a sinergie con attività del
territorio, hanno il duplice vantaggio di favorire nuovi mestieri e custodire
antiche tradizioni, anche con il sostegno di progetti volti alla valorizzazione
dell’area da parte delle istituzioni.