L’IMPRESA COME BALUARDO DI CIVILTÀ
Pur riconoscendo il valore aggiunto che in una società
civile ha la pubblica amministrazione, non possiamo negare l’indifferenza che a
volte constatiamo verso le esigenze delle imprese, soprattutto verso le piccole
e medie aziende. E siamo fortunati se questa indifferenza non si tramuta in contrasto:
mettere il bastone fra le ruote, purtroppo, è un’attività che troppo spesso in
Italia è esercitata da una burocrazia sorda e ignara delle difficoltà che noi
piccoli imprenditori dobbiamo affrontare nel mare magnum del mercato, sempre
più globale, sempre più incerto e in balia degli umori dei “grandi della
terra”, che a volte ci fanno rimpiangere addirittura i terremoti e gli uragani.
Questo non vuol dire che tutti i funzionari della pubblica
amministrazione e tutti i politici giochino contro l’impresa: le eccezioni ci
sono, come in tutte le cose, ma la macchina burocratica, così com’è strutturata
oggi, non si può dire che viaggi spedita per dare sostegno all’economia. Aniz,
si frappone con regole che spesso non hanno alcuna attinenza con la realtà delle
aziende, costringendo ciascuna impresa a dedicare in media 50 giornate l’anno
ad adempimenti di varia natura.
Nessuno mette in discussione che, per esempio, le norme
sulla sicurezza nel posto di lavoro non debbano essere rispettate. Ma perché
un’azienda che costruisce stampi, come la nostra – e non armi o altri oggetti pericolosi
– deve pagare una persona impegnata a tempo pieno nel controllo del rispetto di
queste normative da parte di ottanta collaboratori adulti, maestranze altamente
specializzate come quelle che abbiamo nelle nostre officine, ben equipaggiate
per evitare qualsiasi tipo di incidente? Il pregiudizio contro l’impresa porta a
esagerare i controlli. Ma è un pregiudizio che viene da un’ideologia ottocentesca
nata per combattere, giustamente, le condizioni disumane in cui versavano i
lavoratori della prima industrializzazione. Questa lotta non ha motivo di
sussistere contro le piccole e medie imprese italiane, i cui titolari, nella
maggior parte dei casi, considerano i collaboratori quasi come membri della
propria famiglia. Questa ideologia, però, è stata assorbita da chi lavora nel
pubblico impiego e guarda agli imprenditori come se fossero il male della
società, anziché considerare che, soprattutto con le difficoltà odierne e i
margini che si sono assottigliati ai minimi storici, è un gesto di grande eroismo
fare impresa e non è certo per portare a casa cifre esorbitanti a scapito dei
collaboratori o della collettività.
Credo che sarebbe molto utile se alcuni funzionari vivessero
per un mese i tempi e i ritmi dell’impresa, dove non ci si può permettere di
ritardare nessuna attività, perché anche il compito che sembra più irrilevante
influenza a cascata l’esito di tutti gli altri.
Quando questa ideologia contro l’imprenditore sarà sconfitta
e l’impresa sarà finalmente considerata un bene pubblico per una città, per una
regione, per una nazione, allora, in Italia la politica e, con essa, la burocrazia
si metteranno al servizio dell’economia, come già accade in alcuni paesi, dove
gli investimenti privati sono accolti come fonte di ricchezza, di crescita e di
benessere per l’intera comunità, anziché essere ostacolati.
Ma veniamo alle lotte sindacali, che negli anni del boom
economico sono state indispensabili per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori.
Quello che hanno fatto i sindacati all’epoca è encomiabile,
aveva una ragione importante e ha avuto effetti nella modernizzazione delle
imprese: in molte aziende allora c’erano i cosiddetti padroni, con cui non si poteva
discutere assolutamente, non consentivano ai collaboratori di dare il minimo
contributo di intelligenza e li consideravano semplici esecutori.
Chi si azzardava a contraddire il padrone rischiava di
essere letteralmente sbattuto fuori.
Questo non toglie che, pian piano, i sindacati si siano
lasciati prendere la mano e si sia esagerato nell’altro senso: i dipendenti
adesso sono tutelati in modo incredibile, anche quelli che non hanno molta
voglia di lavorare.
Per fortuna, alla Gape Due sono molti i collaboratori che
sono entrati da giovani e ci sono rimasti fino alla pensione, trovando da noi
gli strumenti per la loro crescita, la loro soddisfazione e la valorizzazione
dei loro talenti.
Le persone si sentono coinvolte nella nostra azienda non
solo perché hanno buoni stipendi, ma per un insieme di fattori, non ultimo
perché si ritengono onorate di lavorare nella realtà industriale più grande del
settore.
Sono questi gli esempi di humanitas che la pubblica
amministrazione dovrebbe considerare per emulare la vita dell’impresa, anziché
ostacolarla. Ed è questo l’augurio che faccio ai giovani che vogliono
intraprendere un’attività nei prossimi anni: trovare nelle istituzioni pubbliche
interlocutori validi per il loro progetto e programma di vita, perché l’impresa
è baluardo di civiltà, non pratica di barbarie, come vorrebbe far credere chi
si accanisce contro il privato. Nella nostra cultura, nella civiltà del
rinascimento, il privato non è opposto al pubblico, ma ne fa parte in modo
indissolubile.