LA VERA CLASSE DIRIGENTE DELLA NOSTRA NAZIONE

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presidente di Finmasi Group

Il forum Impresa, humanitas e pubblica amministrazione (Dipartimento di Giurisprudenza, Unimore, 23 maggio 2019) non deve limitarsi all’analisi degli scenari politici ed economici che stiamo vivendo. Ho ascoltato con interesse le testimonianze d’imprenditori e docenti che mi hanno preceduto, ma credo che sia venuto il momento di cambiare paradigma: anche se l’analisi è un primo passo, non possiamo più rimanere nel ruolo di spettatori inermi e passivi dinanzi alla situazione che si è prodotta in Italia e in Europa. Situazione che toglie o mette in discussione uno dei punti fondamentali alla base dell’intraprendere, cioè la possibilità di fare previsioni a medio e lungo termine al servizio di quella che si definisce strategia d’impresa. Oggi, qualsiasi persona scevra da interessi di parte o di partito è presa dall’incertezza, che a volte sfocia naturalmente nella paura, e finisce per perdere coscienza anche delle cose positive che, per fortuna, sono ancora la parte sana e indispensabile del nostro paese.
Nel mondo si è passati dalla storica Guerra Fredda alla guerra di difesa delle frontiere, sia dal punto di vista dell’individuo sia dal punto di vista degli scambi commerciali. Si mette in discussione, non a parole ma con i fatti, la globalizzazione, che ha prodotto e dovrebbe continuare a produrre il rapporto di do ut des fra le diverse economie. E di questo si parla o si sente parlare troppo poco, trascurando che il perdurare e l’aggravarsi di questa situazione può produrre, sul piano finanziario, economico e sociale, effetti disastrosi e oggi non quantificabili.
In questo quadro di riferimento, si colloca la nostra piccola e bella Italia, i cui dirigenti politici si trastullano da diversi decenni, raccontandoci lo stato dell’arte, con dovizia di statistiche, ognuno indicando le ricette che più gli fanno comodo e insieme puntando il dito verso i presunti responsabili.
Ugo La Malfa all’inizio degli anni settanta lanciò un grido d’allarme perché il disavanzo aveva raggiunto la cifra di 13 miliardi di euro e rappresentava il 37,1 per cento del PIL. Oggi, a distanza di quasi cinquant’anni, il debito ha superato i 2300 miliardi di euro e rappresenta oltre il 132 per cento del PIL.
Deve essere chiaro che questo risultato è frutto e responsabilità di tutti coloro che si sono succeduti al governo del nostro paese. Mentre noi eravamo impegnati in diversi ruoli a fare il nostro lavoro e a produrre ricchezza, gli “amministratori delegati della nostra Azienda-Italia” hanno gestito in questo modo indegno, rendendosi responsabili dei risultati prodottisi nel tempo.
Io sono felice e orgoglioso di avere dedicato trent’anni della mia vita all’Assofermet (associazione nazionale delle imprese del commercio, della distribuzione e della pre-lavorazione di prodotti siderurgici) e di essere stato, fra l’altro, un componente del Comitato consultivo CECA (Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio), traendone una ricchezza intellettuale e professionale impagabile. Ma oggi mi accorgo che non basta più partecipare alla vita associativa, finendo per risultare dei comprimari. Noi imprenditori abbiamo tutte le carte in regola per intervenire come classe dirigente del paese, anziché lasciarlo in mano unicamente a chi – schierandosi a destra, a sinistra o al centro – l’ha portato alle condizioni che oggi registriamo, comparabili a un vero e proprio fallimento.
La classe dirigente – a qualsiasi settore appartenga – deve essere rappresentata da associazioni di categoria in grado di svolgere un ruolo politico e tecnico, assolutamente apartitico, capace di interloquire con cognizione e in modo autorevole per influenzare le scelte politiche e strategiche di chi è chiamato a governare il paese Italia.
A questo proposito, tanto ci sarebbe da dire in merito a quello cui abbiamo assistito negli ultimi decenni.
Privatizzazioni: IRI, telecomunicazioni, Italsider-Ilva, Autostrade, Alitalia, etc., nell’assoluto silenzio ed estraneità delle associazioni di categoria, che tanto avrebbero potuto e dovuto dire.
La sintesi di tutto ciò può essere che non possiamo più assistere in modo passivo a questo andazzo, dove sempre e solo sono protagonisti i rappresentanti di quelle parti che direttamente o indirettamente hanno concorso allo stato patrimoniale e reddituale in cui si trova il nostro paese.
Noi classe dirigente dobbiamo impegnarci al fine di concorrere al cambiamento, smettendo di agire col senno del poi e di limitarci a criticare i risultati di bilancio.
Capisco che il mio intervento possa essere giudicato forte, inadeguato o, peggio, fuori luogo, ma scaturisce da considerazioni molto semplici di un uomo che nella propria vita si è adoperato non per risultare un esempio né per ottenere titoli onorifici, ma per soddisfare un’ambizione, scommettendo sulle proprie capacità con l’indispensabile impegno e coraggio che servono per applicarle.
Credo legittimamente di rappresentare uno dei tanti italiani che hanno percorso questa strada e ai quali va riconosciuta una quota parte del merito per aver concorso allo sviluppo e al benessere che oggi si possono ancora registrare in questo paese. Pertanto, faccio un appello a me stesso e ai miei colleghi imprenditori affinché ci rendiamo conto di ciò che siamo e di ciò che possiamo fare nell’interesse della nostra nazione, rifuggendo da rituali che, stante l’attuale situazione, non hanno più ragione di esistere.