L’IMPRESA, IL RISPARMIO E LA FISCALITÀ
Un’impresa può essere definita come un insieme di contratti
tra i proprietari-titolari della stessa, da una parte, e i dipendenti, i
fornitori, i clienti e i creditori, dall’altra. Secondo questa impostazione non
dovremmo dire che un’impresa prende una decisione: sono solo gli individui che possono
pensare, agire e decidere, a seconda del loro contratto. Questa natura
contrattuale di un’impresa è un elemento importante per intendere il
funzionamento delle imprese e della politica: a torto presentiamo le imprese
come organizzazioni di tipo gerarchico i cui dipendenti dovrebbero essere alla
mercé dei capitalisti.
La gerarchia esiste nell’esercito, ma non in un’impresa, che
è costituita da contratti siglati liberamente tra le parti sociali. Per questo,
l’idea d’ispirazione marxista di uno sfruttamento dei dipendenti da parte degli
imprenditori può essere criticata: le relazioni industriali dipendono dalla
libera firma di contratti tra imprenditore e dipendente.
A partire da queste considerazioni possiamo intendere quale
sia effettivamente il ruolo della fiscalità. Spesso si contrappongono le
imposte versate dalle imprese a quelle versate, per esempio, dalle famiglie, ma
in realtà potremmo dire che l’impresa non paga le imposte. Può sembrare sorprendente,
ma è una conseguenza logica di quanto precisato sulla natura dell’impresa:
un’impresa non pensa, non agisce, non decide. Da un punto di vista puramente
amministrativo, viene richiesto all’impresa di versare un’imposta sui redditi
d’impresa, ma dobbiamo chiederci quali sono gli individui all’interno di
un’impresa che effettivamente supportano il carico fiscale. Facciamo un primo
esempio: immaginiamo che un imprenditore sia disposto a pagare un salario di un
certo tipo ai propri dipendenti, tenendo conto di una produzione, delle tecniche
e del prezzo di vendita dei prodotti. Immaginiamo adesso che lo stato imponga
una nuova tassa a carico di un’impresa: poiché l’imprenditore ha già firmato un
contratto a carattere certo che stabilisce un salario, è lui che dovrà farsi
integralmente carico della nuova pressione fiscale o di trovare delle
alternative, che però non potranno avere effetti immediati. Ci sono molti
esempi di una situazione di questo tipo: per esempio, in Italia, come in
Francia, esistono i contributi sociali che vengono versati dalle imprese e
spesso si fa una distinzione tra i contributi salariali e i contributi datoriali,
di natura previdenziale. Ma è una distinzione assurda: qualsiasi contributo
rappresenta un aumento del costo del lavoro e questo aumento probabilmente è
distribuito tra dipendenti e imprenditori, ma con proporzioni che noi non
possiamo conoscere. Infatti, noi non sappiamo quale sarebbe il salario senza
eventuali contributi.
Un altro esempio: l’imposta sul valore aggiunto (IVA). In
generale si ritiene che l’IVA sia un’imposta sul consumo, ma non è così.
Infatti, quando l’IVA aumenta risulta un peso fiscale sostenuto dagli imprenditori,
proprio perché i contratti con i dipendenti sono già stati stabiliti.
Evidentemente, in seguito, in un secondo momento, l’imprenditore cercherà di
redistribuire il carico fiscale verso altri individui, in particolare verso i
dipendenti. Possiamo dire che l’IVA sia pagata in parte dagli imprenditori e in
parte dai dipendenti, ma le proporzioni non possiamo conoscerle.
Ora, le imposte versate dalle imprese hanno due grandi
difetti: innanzitutto non sono trasparenti; noi non possiamo conoscere quale
sia l’effettiva pressione fiscale che viene ripartita tra imprenditore e
dipendente. Infatti, gli individui non possono conoscere a priori il peso della
fiscalità e questo diminuisce lo stimolo a lottare contro una fiscalità troppo
opprimente.
Inoltre, l’aumento del tasso di imposta versata da
un’impresa o la creazione di una nuova imposta riduce i profitti durante un
certo periodo di tempo e questo disincentiva le attività imprenditoriali (ovviamente,
se c’è una diminuzione di queste stesse imposte, a breve termine, questo
aumenterà il profitto, ma questa situazione è più rara ai giorni nostri
rispetto all’aumento delle imposte).
Un altro difetto è la variabilità della fiscalità che è
difficile da prevedere, quindi aumenta le incertezze: il ruolo
dell’imprenditore è assumere dei rischi, ma occorre che si tratti di rischi
inerenti la produzione, non di rischi derivanti dagli imprevisti della pressione
fiscale.
Altro grande problema introdotto dalla fiscalità è che
trasforma gli imprenditori in agenti del fisco, imponendo obblighi di
riscossione che non hanno alcuna utilità dal punto di vista produttivo. Questi
svantaggi non esistono con le imposte sul reddito, ma dobbiamo comunque
riconoscere che anche l’imposta sul reddito presenta un difetto molto grave:
poiché permette alle autorità politiche di adottare i prelievi fiscali secondo
le caratteristiche dei contribuenti, la progressività dell’imposta sul reddito induce
grandi ingiustizie, punendo in particolare coloro che sono più innovatori e più
efficaci. E questo è deleterio per tutti: se la progressività disincentiva, per
esempio, gli imprenditori più efficaci e più dotati, diminuisce anche le
attività produttive e quindi anche i dipendenti avranno meno disponibilità, meno
incentivi a migliorare le proprie condizioni salariali.
Parliamo ora di fiscalità e risparmio.
La teoria keynesiana ha diffuso l’idea che sia necessario
aumentare il consumo dell’individuo per ridurre il risparmio e quindi aumentare
la domanda globale. È un’idea completamente falsa, perché l’attività produttiva
non dipende assolutamente dalla domanda, ma dagli incentivi alla produzione.
Peraltro, il risparmio non rappresenta una diminuzione della domanda; in realtà
si sostituisce una domanda di beni di investimento a una domanda di beni di
consumo.
Bisogna sottolineare che non esiste una crescita economica
senza accumulo di capitale e senza risparmio.
Il risparmio permette di reintrodurre risorse all’interno
dei circoli produttivi per aumentare le produzioni future.
Spesso la fiscalità distrugge l’incentivo al risparmio,
com’è evidente in particolare per le imposte sul capitale e per i diritti di
successione, e per le imposte sul capitale.
Il risparmio viene tassato eccessivamente, come nel caso
dell’imposta sul reddito. Se un individuo consuma tutto il reddito che gli
resta dopo aver pagato le tasse sul reddito, la materia fiscale sparisce perché
il consumo è un atto di distruzione delle risorse.
Ma se risparmia una parte del suo reddito, i rendimenti
futuri saranno di nuovo colpiti dall’imposta sul reddito, che dunque scoraggia
il risparmio e l’accumulo di capitale. Per questo, io propongo l’adozione di
un’imposta sulla spesa globale, per permettere ai contribuenti di dedurre i
loro risparmi dall’imponibile Scoraggiando il risparmio, la fiscalità riduce in
particolare il patrimonio netto e i mezzi propri dell’impresa, cioè i diritti
di proprietà sulle imprese, che giocano un ruolo importante nelle decisioni
dell’imprenditore. Poiché la fiscalità diminuisce l’accumulo di capitali, e
quindi la crescita, si è tentato di ricorrere a surrogati, per esempio ai
prestiti di origine monetaria. Ai nostri giorni la creazione monetaria avviene
grazie della distribuzione di prestiti dalle banche, che li favoriscono con
tassi molto bassi, scoraggiando in tal modo il risparmio e creando distorsioni
tra consumo e risparmio nelle strutture produttive. Lo dimostra perfettamente
la teoria austriaca del ciclo economico sviluppata inizialmente da Ludwig von
Mises e da Friedrich von Hayek, che spiega anche la crisi, relativamente
recente, del 2008. L’abbassamento dei tassi d’interesse nel 2008 aveva
incentivato investimenti produttivi e immobiliari che però non corrispondevano
alle esigenze degli individui.
Il tasso d’interesse può essere considerato come “il prezzo
del tempo”, il prezzo che determina la scelta tra il presente e il futuro,
ovvero l’equilibrio tra l’offerta di risparmio da parte dei consumatori e la
domanda di risparmio da parte degli investitori. Se per esempio i consumatori
decidessero di risparmiare di più, interverrebbe un abbassamento del tasso
d’interesse e questo farebbe sì che gli investitori ricorressero maggiormente ai
prestiti, ristabilendo l’equilibrio.
Ma nel momento in cui la creazione di moneta aumenta,
abbassando i tassi d’interesse, si può ritenere che ci sia più risparmio di quanto
in realtà esista, per cui gli investitori faranno ancor più ricorso ai prestiti
per poter investire di più. In tal modo i fattori di produzioni si spostano
dalla produzione di beni di consumo verso la produzione di beni d’investimento.
Questo non corrisponde a un buon equilibrio tra consumo e
risparmio.
Una tale distorsione non può durare a lungo: i produttori di
beni di produzione subiscono un crollo delle vendite e arriva la crisi.
In che modo la fiscalità e la politica monetaria creano
incertezze? Consideriamo che la crisi economica si trova al confine tra una
politica fiscale che distrugge gli incentivi al risparmio e una politica
monetaria che pretende di fornire un sostituto al risparmio che non fa altro
che introdurre delle distorsioni rispetto a una situazione dove l’equilibrio
dovrebbe nascere dalla libera costituzione di domanda e offerta.
L’interventismo di stato è aumentato negli ultimi decenni, esponendo il
capitalismo ad attacchi vigorosi: per l’opinione pubblica è stato facile
credere che la crisi del 2008 fosse una manifestazione del carattere
fondamentalmente instabile del capitalismo se non della sua immoralità. Questa
visione non è corretta perché in realtà l’interventismo di stato e
l’indebolimento del capitalismo hanno impedito ai mercati di svolgere il ruolo
regolatore loro proprio, per cui le stesse cause che hanno provocato la grande
crisi degli anni trenta si sono ripresentate.
La causa della crisi risiede nelle politiche di espansione
monetaria praticate negli Stati Uniti, agli inizi degli anni duemila.
L’abbondanza di liquidità ha spinto a finanziare con interessi troppo bassi
troppi progetti a rischio. La politica interventista del governo degli Stati
Uniti ha obbligato spesso le banche ad accordare prestiti a soggetti poco solvibili
anche con il pretesto di dover evitare discriminazioni (come se il compito
delle banche non fosse proprio quello di discriminare tra le domande di
finanziamento!).
Proprio nella crisi recente, come nelle precedenti, dobbiamo
constatare una conseguenza dell’indebolimento del capitalismo, a causa della
penalizzazione dell’accumulazione del capitale attuata dalla politica fiscale e
monetaria di vari paesi.
Anche i sistemi contributivi pensionistici o i sistemi di
assistenza sanitaria pubblica non incitano al risparmio poiché il compito di
coprire tutti i rischi è delegato allo stato. Ecco perché la maggior parte dei
paesi sviluppati è caratterizzata da una debolezza del risparmio, in
particolare da un’insufficienza di fondi propri, che lo stato cerca di compensare
attraverso una sorta di politica monetaria illusoria.
Ne consegue che le politiche adottate nei vari paesi con il
pretesto di uscire dalla crisi sono state completamente inadeguate e hanno
aumentato le difficoltà. Abbiamo attuato delle cosiddette politiche di rilancio
che portano a sprecare risorse scarse e che impediscono le ristrutturazioni attuate
in modo naturale dal mercato e abbiamo aumentato le normative nuocendo al buon
funzionamento dei mercati. Il coordinamento internazionale di queste politiche
può soltanto aggravare il problema, poiché gli errori non perdono la loro
natura se sono adottati da tanti paesi.