DAL PUBBLICO AL PRIVATO, L’AMMINISTRAZIONE
Nella Scienza nuova, pubblicata nel 1744, pochi mesi
dopo la sua morte, Giambattista Vico scrive che al “dominio eminente delle
civili potestà, nei pubblici bisogni, deve cedere il dominio sovrano e
dispotico che hanno i padri di famiglia de’ loro patrimoni” (4-I-971).
Vico indica in tal modo come in nome dei “pubblici bisogni”,
il “dominio sovrano” dei privati sui loro patrimoni deve cedere alle “civili
potestà”, al potere pubblico, sottolineando come già nell’antica Roma la
dicotomia pubblico-privato si doveva risolvere a vantaggio del pubblico. Del resto
già Cicerone nota che la confisca dei beni veniva chiamata publicatio
bonorum: quando il bene entrava nella publicatio, veniva
sequestrato, confiscato.
Sorge così l’idea del pubblico che confisca il privato,
l’idea del pubblico come idea di ingerenza nella famiglia (come nel caso delle
adozioni di Bibbiano) e di predazione dell’impresa (come nei sequestri e nei fallimenti
attuati nel caso Verdiglione e in tanti altri casi). Idea così diffusa nella
nostra epoca e così praticata dalla burocrazia fiscale, politica e giudiziaria,
come testimoniano l’intervento di Pascal Salin e di molti imprenditori di
questo numero. Questione di cannibalizzazione delle cose, che interviene anche
nel giornalismo e nell’editoria penalpopulista, in cui “pubblicare” è sinonimo
di “dare in pasto al pubblico”: le cose vanno “condivise”, frammentarizzate,
distribuite nella comunità, cioè cannibalizzate. La pubblicazione come forma di
cannibalismo sociale, sotto l’idea di parità, di uguale sociale: contro
l’anomalia, l’ineguale, sorgerebbe il pubblico, come ciò che accomuna, come ciò
che confisca e ciò che viene sottoposto al bene comune.
Non a caso, in conclusione del Concilio vaticano II, Paolo
VI consegnò una lettera al mondo filosofico e scientifico nelle mani del
filosofo e teologo Jacques Maritain. Nel suo libro La persona e il bene
comune (1947) il padre dell’“umanesimo integrale” aveva teorizzato il bene
pubblico come bene comune, trasformando il pubblico in luogo del nutrimento
spirituale, cioè egualitario.
Il termine publicus interviene nell’antica Roma. La
Grecia ignora il pubblico, però giunge all’invenzione del coro, che pure
mantiene un accento moralistico, rispettoso del bene comune, nell’idea di
dovere amministrare la divulgazione dell’evento, rendendo tragici o stemperando
la sua tensione e il suo squarcio. Nell’antica Roma sorge il pubblico, e in
particolare la res publica: il pubblico viene accostato alla cosa. Ma la
res publica è la cosa a disposizione di tutti, contrapposta alla cosa
privata? O non è invece quel che sfugge alla possessione o alla padronanza di
ognuno, su cui nessuno può metter mano? Da sempre, invece, la politica, come
spettacolo di padronanza, deve mettere le mani sulla repubblica, sulla città,
deve far sì che ci sia qualcuno che controlli e gestisca il pubblico, gli enti
pubblici, le istituzioni pubbliche.
Ecco che il pubblico diventa sinonimo di padronanza e di
gestione delle cose, e “la cosa pubblica” diventa la cosa di tutti, quindi la
cosa del popolo, quindi la cosa di chi parla in nome del popolo. Il popolo è il
riferimento spirituale, misterico, di ogni purista e fondamentalista, e diviene
a sua volta purista e fondamentalista quando gli viene attribuita la sovranità,
per negarla.
Res publica: più che la cosa pubblica, il pubblico
della cosa. Della cosa nessuno parla, non è popolare: la cosa è nella parola, e
il pubblico della cosa non sta a guardare, è indice dell’infinito della parola.
La cosa non è personale né collettiva quando, ricercando e facendo, le cose
entrano in un ritmo, in un dispositivo.
Mentre il popolo è spirituale, il pubblico della cosa è
pragmatico, esige il tempo del fare, infinito e eterno, negato dallo
spiritualismo e dalla sua variante, il materialismo. Solo se il tempo finisce le
cose possono essere frammentate, cannibalizzate, spiritualizzate, quindi diventare
un prodotto finito. Il prodotto finito è un prodotto che nega il pubblico, che
si rivolge a un pubblico come consumatore, ancora una volta all’insegna del cannibalismo.
E anche la pubblicazione editoriale può essere considerata in questa accezione:
pensiamo al pubblico dei lettori, intesi come divoratori di libri, che i libri
“se li bevono”, “se li divorano”.
Come se potesse abolirsi l’edizione, che non è la
pubblicazione: l’edizione segue il processo intellettuale, segue la via di astrazione
lungo cui si costituisce il pubblico.
Inventato nel rinascimento, segnatamente da Niccolò
Machiavelli e Ludovico Ariosto, il pubblico esige la differenza e la varietà,
l’internazionalismo e l’intersettorialità.
Per questa via è l’humus dell’impresa, della città e
dei dispositivi civili. Noi, voi, loro, il pubblico, facendo.
In quanto pragmatico, il pubblico non persegue l’idea di
bene e non supporta l’idea di bene pubblico, cui si appella ogni governo
burocratico. L’humanitas è il terreno dell’Altro, che non è il terreno dell’intesa,
dunque non è il terreno della comunità sociale, fraterna, spirituale: il
pubblico è il terreno del malinteso, con cui non c’è più omertà, dunque segreto
e mistero. Niente pubblico senza malinteso.
Inconoscibile, il pubblico della parola non è quello della
condivisione. Non sono i follower, il pubblico ideale, misterico, muto del
botta e risposta, del like-unlike, il pubblico fake che manca la parola
originaria. Il malinteso rilascia l’enigma, quindi il teorema: non c’è più condivisione.
Il pubblico della parola originaria è la base della riuscita, non del successo.
Solo se viene tolto, idealmente, il malinteso, il pubblico è rappresentabile, visibile,
contabile. Il pubblico non rappresentabile è ignoto. Non possiamo sapere qual è
il nostro pubblico, perché non è numerabile, è quell’humus con cui
narrando, facendo, scrivendo il calcolo si imbatte nell’errore indispensabile per
l’invenzione e la novità, in direzione della qualità. Le imprese, come
ciascuno, incontrano il pubblico nel racconto, intessuto di sogno e di
dimenticanza. E il pubblico risulta indice dell’infinito nel racconto. Come
sottolinea in questo numero Bruno Conti, il pubblico interviene facendo, dunque
nel tempo pragmatico, il tempo proprio del fare. Facendo, il tempo non finisce,
e il pubblico ne è l’indice. Come sottoporlo alla statistica, all’amministrazione
sociale, all’amministrazione pubblica? Res publica: la cosa è pubblica.
Non lo è l’amministrazione, quando pretende di seguire la volontà dell’Altro,
ovvero la forma ideale della propria. Il pubblico si annulla dietro la pubblica
amministrazione che sia basata sul canone della licenza, anche sociale, che è
il canone dell’omertà, per cui nella vita è vietato tutto ciò che non è
concesso.
Ma nella testimonianza dei sindaci e degli assessori
pubblicati in questo numero, nel loro racconto, si avverte l’istanza, o
addirittura l’esperienza, di un’altra amministrazione. Un’amministrazione che
non neghi, in modo burocratico, il tempo, il fare, l’impresa, che non si opponga
al privato e che non vanifichi il pubblico. Un’amministrazione che poggi sull’infinito
del tempo e sull’eternità del tempo, dunque che, non attenendosi al criterio
burocratico dell’accettabilità e della rispettabilità, si rivolga al compimento
delle cose, anziché impedirlo, e all’approdo delle cose, anziché al prodotto
finito. La città del secondo rinascimento (altra cosa dall’umanesimo e dal
transumanesimo) esige un’amministrazione che non amministri secondo la
concessione, cioè attenendosi al canone della licenza, ma che consenta che l’impresa,
l’arte, la scienza giungano a compimento e all’approdo.
Senza più contrapposizione tra pubblico e privato, ciascuna
impresa esige l’amministrazione e i suoi dispositivi (contabili, scritturali,
finanziari) perché il fare giunga a compiersi e a approdare alla riuscita. Dal
pubblico al privato si tesse l’amministrazione che trova la piega in ciascuna
cosa e la semplicità per giungere al privato, all’unicum del caso. Evitare
l’amministrazione è evitare il caso. Questa la questione amministrativa: come
le cose che si fanno si scrivono. L’imprenditore non ha tempo per intrattenersi
a criticare le lungaggini dell’amministrazione, a prendersela con gli
amministratori, a sottovalutare l’amministrazione della propria impresa.
L’impresa non può incontrare il pubblico senza
l’amministrazione: da qui l’importanza delle scritture contabili, dei
documenti, dei registri, degli archivi, che non si attengano all’idea che il
tempo finisca, ma annunciano il bilancio dell’avvenire.
I dispositivi amministrativi sono indispensabili per la
scrittura dell’impresa.
Questa scrittura non è il verbale del fatti, esige il
racconto, indispensabile per la riuscita. Per questo il tabù
dell’amministrazione, della scrittura del fare, è il tabù della riuscita, sotto
l’egida dell’idea di fine. Questo tabù interviene anche quando ci preoccupiamo
che le cose, per esempio i soldi o l’amore, finiscano, e ci chiediamo “Che ne
sarà di noi?”, “Che ne sarà di questo e di quello?”. Partire dall’idea di fine,
è già negare il pubblico, è già considerare le cose al di fuori del loro infinito,
è già pensare a salvarsi. Il pubblico è essenziale per la salute, altrimenti abbiamo
la salute pubblica, che è la salute contro il pubblico, è la salute confiscata dal
pubblico, è la salute governata dal cannibalismo sociale. Questo concetto di
salute è un concetto di fine del tempo: è un modo per salvarsi. Questa non è la
salute, è la salvezza: come mi salvo dal dolore? come mi salvo dal lutto? come mi
salvo dalla malattia? Ognuno si salvi come può. E questa è la negazione del pubblico.
Nessuna città fuori della parola, nessun pubblico fuori
della parola. Il pubblico è l’humus nel nostro racconto, nel nostro
progetto, nel nostro programma.
Nulla è escluso, rifiutato, proibito da questo humus,
che non oppone preclusioni, rifiuti, prevenzioni, precauzioni. Noi, voi, loro:
il pubblico, l’humus dell’impresa e della riuscita.