L’INDUSTRIA NON TOGLIE LA LIBERTÀ DEL DESIDERIO

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ingegnere, CEO di SIR SpA, Modena

A proposito del tema di questo numero della rivista, La necessità del superfluo, il 15 marzo scorso l’astronauta Paolo Nespoli ha tenuto una conferenza alla SIR. Era un incontro necessario o superfluo? Paolo Nespoli, ingegnere e maggiore dell’aeronautica, ha partecipato alla missione militare in Libano ed è stato nello spazio tre volte: nel 2007 con la missione Space Shuttle Discovery STS-120 (USA), nel 2010 con la missione Soyuz TMA-20 (Russia), diretta alla Stazione Spaziale Internazionale, con 157 giorni di permanenza nello spazio, e infine nel 2017 con la missione Soyuz MS-05 (Russia), sempre diretta alla Stazione Spaziale Internazionale, con 139 giorni di permanenza nello spazio. Per noi è stata un’occasione d’interesse culturale, che ci ha consentito d’indagare quali siano le sfide e le motivazioni che stanno alla base del viaggio spaziale.
Inoltre, attraverso il racconto di aneddoti curiosi e divertenti, l’astronauta ha illustrato le principali differenze tecnologiche, organizzative e culturali tra l’approccio americano e quello russo.
Di primo acchito, un incontro come questo sembrerebbe non portare alcun utile diretto all’azienda. In realtà, ci siamo resi conto che, nei giorni successivi, molti collaboratori che avevano partecipato alla conferenza continuavano a meditare sulla necessità di un approccio pragmatico al lavoro e alla ricerca delle soluzioni. Nespoli stesso aveva elogiato l’importanza dell’essenzialità, al fine di evitare inutili complicazioni, un criterio che sta alla base dell’intero programma spaziale russo. “Ciò che non c’è non si rompe” è la regola primaria della filosofia ingegneristica sovietica; gli americani, al contrario, sono naturalmente portati alla ridondanza estrema dei sistemi.
Rientra nella tradizione di SIR organizzare attività culturali - come la conferenza privata di Nespoli - che non siano strettamente inerenti al nostro settore. La lettura, per esempio, anche riguardo a temi che esulano dalla robotica, è sempre stata promossa da mio padre, Luciano Passoni. Quando scopre un libro interessante, di solito invia una mail ai collaboratori per consigliarne la lettura oppure ne acquista una ventina di copie per regalarle a chi ama leggere. Tra l’altro, è autore di due libri: L’uomo dei robot, la sua autobiografia, e Il tramonto, in cui, poco prima che scoppiasse la crisi del 2008, rivolgeva alla politica un accorato appello affinché fossero poste le condizioni necessarie al rilancio dell’industria nel nostro paese.
Noi non ci siamo mai chiesti se il pensiero fosse necessario o superfluo.
Costruiamo sistemi robotizzati, siamo tecnici e non filosofi, eppure constatiamo che nessuno può fare a meno del pensiero, della cultura e della riflessione.
L’incontro con Nespoli può essere utile per farci capire quanto siano ridondanti e dispendiosi gli scambi di mail, di messaggi o di telefonate finalizzati a documentare ogni singolo passo nello svolgimento del proprio lavoro, un modo molto costoso per sbarazzarsi di ogni responsabilità. È una pratica assurda che porta a uno spreco inaudito di tempo, di risorse e di energie, oltre a diminuire l’efficacia produttiva dell’azienda.
Quindi, la ridondanza non è necessaria, mentre il superfluo sì, se per superfluo s’intende tutto ciò che di solito viene considerato inutile, se non dannoso, in quanto non produce i cosiddetti “beni di prima necessità”. L’ideologia della decrescita felice, per esempio, attacca l’industria, ritenuta responsabile d’indurre falsi desideri di “beni superflui”, che non risponderebbero ai cosiddetti “bisogni reali dei consumatori”… Naturalmente l’industria persegue i propri interessi, ma va anche ricordato che proprio dall’industria sono nate quasi tutte le innovazioni. Pensiamo allo smartphone: quando è uscito forse era superfluo, ma poi ci ha aperto nuovi orizzonti, permettendoci di fare cose prima impensabili; da superfluo è infine divenuto necessario. Lo stesso si può dire di tutte le opportunità che le tecnologie digitali hanno concesso a paesi fino a poco tempo fa esclusi dall’economia globale.
Alec Ross, nel suo libro Il nostro futuro, nota che in un continente come l’Africa, per esempio, le tecnologie digitali, saltando a piè pari tutti gli stadi precedenti, hanno contribuito a migliorare le condizioni di vita di milioni di persone. In Pakistan, dove le donne non hanno nemmeno diritto al voto, l’imprenditrice Maria Umar, con un computer, incominciò a lavorare per alcune aziende degli Stati Uniti e, due anni dopo, costituì la Lega Digitale delle Donne che oggi ha una rete con centinaia di freelance.
Questa è la prova che l’industria non toglie la libertà del desiderio: dobbiamo anzi essere grati se esistono persone che s’ingegnano continuamente per fare avanzare la tecnologia e aumentare la qualità della nostra vita. Mio padre ha fondato la SIR proprio con questa missione: costruire robot e impianti di automazione che eliminassero il più possibile i lavori pesanti, ripetitivi e noiosi, affinché l’uomo potesse dedicarsi ad attività di maggiore soddisfazione.
Gli attacchi all’industria e le proposte di decrescita felice non vengono certo da chi usufruisce dei prodotti della civiltà industriale: soltanto chi non ha esperienza della qualità di vita che abbiamo raggiunto può criticare e attaccare il mondo produttivo. Spesso questi attacchi sono basati esclusivamente sull’invidia sociale o sulla bramosia di distruggere ciò che si pensa di non poter ottenere. Ma l’invidia sociale ha vita breve, non ha nessun potere di fermare la trasformazione in atto e d’interrompere il gioco.
Tuttavia, la sociologia spaccia i suoi slogan sull’economia circolare e la sostenibilità dalle cattedre di molte università italiane, dopo essersi nutrita alle fonti di quelle francesi. Purtroppo, questi slogan arrivano anche in alcune aziende, che ne fanno argomenti principe dei loro storytelling.
Noi italiani abbiamo una particolare predisposizione all’assorbimento acritico di tutto ciò che viene da altri paesi, senza valutarne gli effetti. Sulla sostenibilità energetica, per esempio, ci sarebbe molto da dire: apparentemente, è tutto facile e lineare. In una grande casa automobilistica che ha investito in un numero elevato di sistemi sostenibili, si è provato ad alimentare la fabbrica esclusivamente con tali risorse. La prova è stata effettuata al sabato, quando gran parte delle macchine utensili e le linee di fonderia erano spente, e con un’esigua percentuale di personale presente. Sono riusciti ad andare avanti qualche ora. Ma cosa accadrebbe se l’esperimento fosse svolto di lunedì, quando la fabbrica lavora a pieno ritmo? La risposta è semplice: utilizzando solo fonti rinnovabili, la produzione non sarebbe possibile. Occorre ammettere che attualmente, per problemi di natura non ideologica, bensì tecnologica, la sostenibilità non è sostenibile. Anche l’auto elettrica, se fosse diffusa capillarmente in ogni famiglia, non sarebbe applicabile: rappresenterebbe anzi una fonte d’inquinamento maggiore dell’auto tradizionale, considerando che non basterebbero le energie rinnovabili a produrre l’enorme surplus di corrente indispensabile a un parco macchine come quello attuale. Si dovrebbe necessariamente incrementare la produzione di energia utilizzando il carbone, il petrolio, l’atomo e le risorse idriche, tenendo però in considerazione il fatto che le centrali idroelettriche, anche se poco inquinanti, non si possono installare ovunque, perché non sempre la morfologia e la struttura delle valli o dei corsi d’acqua lo permettono.
È indiscutibile che il mondo vada ormai in direzione dell’elettrico, ma attualmente abbiamo ancora notevoli problemi tecnologici che saranno risolti solo nel lungo periodo. Si consideri inoltre che molto spesso il “mercato della sostenibilità” è drogato da incentivi che alterano la razionale analisi dei costi e benefici.
Per quanto riguarda l’economia circolare, infine, è troppo facile asserire che non devono esserci sprechi e che tutto deve essere riciclato. Per riciclare in modo corretto, occorre mettere in atto una serie di attività che presentano costi elevati, sempre ponendo attenzione al rischio che tali procedure possono inquinare più di prima.
Oggi, in alcuni settori, le “fabbriche intelligenti” utilizzano gli scarti di produzione al fine di evitare l’immissione di rifiuti nell’ambiente. Chiaramente, non ha senso disperdere nell’ambiente materiali che possono essere riciclati. Ma perché dovremmo definirla economia circolare? In pratica si tratta di una pura e semplice limitazione degli sprechi, attività economica che ogni buon imprenditore e ogni buon padre di famiglia dovrebbe fare.
SIR ha lavorato a un progetto di ricerca europeo, denominato Areus, al quale hanno partecipato importanti università e partner industriali. Sono stati sviluppati nuovi metodi di progettazione e gestione delle celle robotizzate al fine di ridurre il consumo energetico mantenendo la medesima produttività e qualità di lavorazione.
Uno degli obiettivi specifici di ricerca nell’ambito di Areus riguarda il recupero di energia dai movimenti dei robot: l’attività produttiva comporta elevati consumi energetici, amplificati dalle inefficienze intrinseche delle macchine. Quando si utilizza un robot, una considerevole quantità di energia viene dispersa nelle fasi di accelerazione e frenata. Perché, quindi, non applicare ai robot lo stesso concetto utilizzato nelle auto elettriche, dove l’energia dissipata in frenata viene recuperata per ricaricare le batterie? Grazie all’introduzione sui sistemi robotizzati di tecnologie simili al KERS (Kinetic Energy Recovery System, sistema di recupero dell’energia cinetica), usato anche in Formula 1, è possibile recuperare il 20-30 per cento dell’energia, che potrà essere reimmessa nella sottorete aziendale affinché le macchine possano usufruirne. Se immaginiamo uno stabilimento automotive, che soltanto nell’assemblaggio della scocca e del telaio di un’auto impiega un migliaio di robot 24 ore su 24, è facile comprendere cosa significhi risparmiare una percentuale così considerevole.
Abbiamo eseguito anche opportune prove per uno sfruttamento più consono della gravità: il robot consuma più energia nei movimenti verso l’alto piuttosto che in quelli verso il basso, nel quale è ovviamente aiutato dalla gravità stessa. Programmando le sequenze dei movimenti in modo da limitare le salite inutili e mantenendo i motori al minimo durante le discese (se ovviamente il tempo ciclo richiesto lo permette), si ottiene un ulteriore beneficio in termini di energia risparmiata.
L’applicazione di queste tecnologie porta a una maggiore efficienza e a minori costi, ma per cortesia riferiamoci a queste strategie utilizzando il loro vero nome: non economia circolare, bensì riduzione oculata degli sprechi.