L’HUMANITAS NELLA CASA DEI ROBOT
Nata nel 1984 da un’idea di suo padre, l’ingegner Luciano
Passoni, la SIR ha dedicato i primi quattro anni di vita alla ricerca pura, al
fine di progettare, testare e realizzare un robot antropomorfo allora all’avanguardia
dal punto di vista tecnologico.
A proposito del titolo di questo numero Il talento,
l’ingegno, l’intelligenza, nella casa dei robot l’intelligenza artificiale
si sta pian piano affiancando all’ingegno e alla fantasia tecnica dell’uomo… Le
applicazioni di intelligenza artificiale in ambito industriale hanno iniziato a
svilupparsi per soddisfare l’esigenza di mettere a punto dispositivi di
automazione non ripetitivi.
Attualmente il campo di utilizzo più promettente riguarda i
sistemi di visione artificiale: quelli di tipo tradizionale sono efficaci
soltanto nel riconoscimento della somiglianza stretta, ovvero possono
localizzare un elemento solo se questo presenta caratteristiche identiche o
quasi a quello appreso. Un sistema di visione intelligente, al contrario, è in
grado di riconoscere un oggetto come parte di un insieme logico, anche se tale oggetto
non è propriamente similare a quello utilizzato come master di apprendimento.
Tali soluzioni si basano su algoritmi di classificazione e funzionano come una
rete neurale, utilizzando l’astrazione dell’oggetto, il suo concetto, più che
la sua conformazione: per esempio, dopo avere fatto acquisire al sistema le
immagini di nove telefoni completamente differenti, esso potrà riconoscerne un decimo
dissimile da tutti gli altri (per forma, colore, dimensioni) perché ha ormai
“compreso” quali siano le caratteristiche intrinseche di un dispositivo mobile,
come la presenza di tasti e di uno schermo. Esistono software intelligenti che
vengono usati anche in ambiti completamente diversi da quello industriale: si pensi
al riconoscimento facciale o ai programmi di cui si avvalgono i giudici
americani per semplificare la formulazione delle sentenze nei reati minori,
attraverso la ricerca automatica di migliaia di analogie con casi precedenti.
Occorre però prestare attenzione al fatto che, anche se tali algoritmi sono
dotati di un’intelligenza embrionale, a essi non viene comunque delegato il
giudizio, che rimane prerogativa dell’uomo. Siamo quindi lontani dalle
possibilità che ci prospetta la fantascienza, con robot in grado realmente di
pensare e di prendere decisioni. Dovremmo quindi temere che, con l’avvento dell’intelligenza
artificiale, si perdano milioni di posti di lavoro? Io non credo: si perderanno
soltanto quelli che concernono i compiti più gravosi e ripetitivi, ma nessuno
potrà sostituire l’ingegno dell’uomo, che sarà sempre più richiesto per inventare
nuovi prodotti e nuovi algoritmi. Diciamo che l’occupazione si sposterà su un
livello di mansioni più elevato, dedito alla realizzazione e alla manutenzione di
tali sistemi.
In pratica, nonostante il transumanesimo prospetti e
auspichi un futuro di cyborg, l’humanitas rimane l’aspetto più
importante, anche in un’azienda come la SIR. Non a caso, dal 2002 avete sviluppato
un rapporto permanente con la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Modena e
Reggio Emilia, offrendo, attraverso gli stage, un humus, un terreno su
cui poi si sono formati non solo tecnici, ma anche persone che adottano un approccio
globale all’esperienza… Fin dall’inizio abbiamo ospitato studenti
provenienti da molteplici ambiti, che devono confrontarsi con un ambiente molto
diverso da quello dell’università e hanno modo in SIR di svolgere attività che
sfociano, completamente o in parte, in un’effettiva commessa. L’approccio alla
risoluzione di un problema avviene in modo differente se affrontato da un
ricercatore universitario o da un tecnico aziendale. È chiaro che in un’azienda
il lavoro si svolge preminentemente sul piano pratico, tendendo alla
risoluzione di un problema in modo più diretto, senza necessariamente
considerare la teoria fisica o matematica sottesa a quella soluzione. Un tecnico
puro, per realizzare un programma di un robot, parte dai dati della realtà, non
medita su un modello matematico, anche se tende a costruire una sequenza logica
a blocchi di ciò che sarà implementato. Un ricercatore universitario fa
esattamente il contrario: parte dalla formula matematica per costruire un
modello che risponda alle sue esigenze.
Questa differenza di approccio porta risultati
differenti? Un ottimo ingegnere nel campo dell’automazione è colui che è in
grado di operare una combinazione di entrambi gli approcci. Ma è chiaro che per
ottenere un risultato più universale, estendibile e riutilizzabile, occorre
avere e sfruttare una base culturale.
Sta qui il valore della formalizzazione… Esattamente.
Aggiungerei che la base culturale non può limitarsi al solo lato tecnico,
sebbene il lavoro richiesto sia di tipo ingegneristico: per redigere una
presentazione di un progetto o di una soluzione occorrono strumenti culturali,
quali la conoscenza delle lingue (italiano compreso), e strumenti di logica.
Anche questo fa parte dell’humanitas. I tedeschi e gli anglosassoni
portano questo approccio all’esasperazione: sono capaci di redigere documenti, diagrammi
e presentazioni anche solo per prepararsi al montaggio di una vite, dando
l’impressione di perdere troppo tempo prima di arrivare a un risultato
concreto. In realtà non è così: se usati in modo oculato, gli strumenti
logico/culturali offrono la possibilità di effettuare una ricerca a monte,
illustrando preventivamente tutti i passaggi per il corretto svolgimento di
un’attività; in tal modo, al termine di tale lavoro teorico, il tempo per
giungere a un risultato concreto si riduce.
L’humanitas all’interno di una realtà aziendale
comporta anche un approccio più globale al lavoro? In tutte le aziende,
storicamente, hanno sempre convissuto due anime contrastanti: da un lato, il
tecnico portato a credere che il commerciale non possieda alcuna cultura
tecnologica del prodotto, avendo come unico obiettivo la conclusione della
vendita, e, dall’altro, l’area manager indotto a pensare che la preoccupazione principale
dell’ingegnere sia quella di complicare le cose. Oggi questa contrapposizione
tra anima tecnica e commerciale appare più sfumata, perché un buon addetto alle
vendite deve essere dettagliatamente informato sugli aspetti tecnici del
prodotto, mentre il tecnico/ingegnere deve conoscere le lingue (compreso la
propria) e deve sapere relazionarsi con clienti e fornitori. In pratica deve possedere
adeguate soft skills e una cultura di base variegata, qualità che un
tempo non venivano richieste, soprattutto se il tecnico stesso era dotato a
priori di grande competenza ed esperienza. Questo dualismo è sempre stato
presente in tutte le nazioni, assumendo però forme differenti a seconda della
cultura. Nelle nostre realtà, storicamente il commerciale è più remunerato e
gode di maggiori benefit di un tecnico. In Giappone, invece, avviene il
contrario, perché lì la cultura imprenditoriale è basata più sul prodotto che
sul meccanismo di convincimento del cliente: se il prodotto è ottimo – e il
prodotto lo realizzano i tecnici –, si vende praticamente da solo.
Voi in che modo riuscite a formare i commerciali agli
aspetti tecnici e viceversa? Nella SIR questa formazione avviene sul campo,
perché siamo assimilabili a uno studio d’ingegneria o a un laboratorio di
ricerca. La nostra è una produzione prototipale, in cui non c’è niente di
standard, quindi l’approccio al lavoro deve essere necessariamente trasversale:
il commerciale che deve preparare un’offerta ha necessità dei tecnici per
redigerla, ma anche quando deve svolgere un’attività di marketing, quali la
realizzazione di una brochure o di un video per una fiera, deve confrontarsi
con diversi collaboratori e non può limitarsi ai soli addetti alla
comunicazione. D’altra parte, abbiamo sempre incentivato ciascuno a non
rimanere confinato nel proprio ambito ristretto, per cui può accadere, per
esempio, che un tecnico sia interpellato per redigere una presentazione da
utilizzare in una conferenza. È corretto che ciascuno impari a fare attività
differenti che esulano dalla propria sfera di mansioni dirette. Mentre un tempo
questa era una prerogativa riservata ai dirigenti, oggi la stiamo estendendo a vari
collaboratori, perché rappresenta un presupposto indispensabile per il lavoro
di squadra. È interessante constatare come, con questo approccio, i
collaboratori si interessino al destino dei progetti in cui vengono coinvolti.
Se, per esempio, un tecnico è al corrente dei passaggi che portano alla
formulazione del prezzo di un prodotto, sarà più responsabilizzato nel rispetto
dei costi evitando gli sprechi. Il coinvolgimento rende i collaboratori persone
migliori e più complete. Questo risulta ancora più evidente quando sono fuori
sede, presso lo stabilimento di un cliente: in tal caso, i collaboratori non si
limitano a mettere a punto un impianto, ma sono in grado di cogliere ulteriori occasioni
di vendita che emergono parlando con il cliente. Divengono quindi veri
“rappresentanti” dell’azienda, nel senso che la identificano.
Un tempo questo non accadeva e il tecnico interpellato su
questioni che esulavano dalla propria mansione suggeriva al cliente di
rivolgersi al responsabile preposto all’interno della SIR. In molte realtà,
purtroppo, è ancora radicata la pessima abitudine di rispondere a una richiesta
asserendo che “questo non è di mia competenza, quindi si rivolga al mio
collega”.
Una risposta simile crea un’impressione di respingimento
della richiesta e di dismissione delle responsabilità: anche in assenza di una
risposta immediata, sarebbe più che auspicabile una forma di comunicazione più collaborativa,
ad esempio tramite il coinvolgimento di persone più esperte senza disfarsi
pedissequamente del problema. I limiti nella comunicazione non sono più
accettabili, così come non è accettabile il nascondersi dietro la
burocratizzazione dell’azienda. In alcuni paesi, come la Germania, dove l’organizzazione
aziendale è sacra, dobbiamo confrontarci con una separazione molto spinta delle
competenze: se, da un lato meramente organizzativo, questo è corretto, dal lato
comunicativo tale approccio presenta i suoi limiti. Accade allora che
all’interno dell’azienda tedesca si cerchi di parlare con quelle figure che
hanno maturato un approccio più trasversale e una cultura che non sia limitata al
proprio segmento di competenza tecnica. Questo avviene non perché siamo latini
e più disorganizzati, ma perché ricerchiamo un canale comunicativo dove l’humanitas
si possa esprimere pienamente.