L’ITALIA, IL MEDITERRANEO, L’AFRICA
Il significato di “Sahel” è “Porto del deserto”, per via del
clima arido e secco di questa regione, che dalla parte nordorientale del
Senegal, dal Gambia e dalla parte meridionale della Mauritania si estende fino
al Mar Rosso.
I primi politici italiani ad avviare un progetto sul Sahel
furono Marco Pannella e Bettino Craxi, con la campagna sulla fame nel mondo.
Per Craxi il Sahel divenne una priorità e, negli anni ottanta, in cui ricoprì
la carica di Presidente del Consiglio, avviò una cooperazione con quei paesi,
aumentando fortemente i fondi stanziati. Allora, ci si perse in polemiche
sull’utilizzo di questi fondi, senza considerare che erano strumenti di
politica estera che in pochi anni consentirono all’Italia di fare concorrenza
alla Francia anche in paesi per essa strategici come il Senegal, in cui
l’ambasciatore francese è una sorta di ministro ombra di un governo retto anche
con il sostegno francese. Purtroppo, con la caduta della prima repubblica, è
venuta meno la continuità del progetto e la cooperazione è stata abbandonata, e
oggi occorre ricominciare tutto da capo, per giunta, soltanto grazie a scorte
armate.
Se l’Italia avesse perseguito la politica attuata negli anni
Ottanta, non avremmo avuto problemi con gli accordi per i rimpatri.
Parlando del Niger, occorre dire che è diventato
improvvisamente importantissimo per l’Italia, perché da Agadez transita, per
poi arrivare in Italia, chi proviene da Nigeria, Costa d’Avorio, Liberia e
Ciad. Adesso in Niger ci sono tre organizzazioni terroristiche: a sud Boko
Haram, a nord c’è un’alleanza formata da Aqmi, Al Morabitum e Ansar Dine,
mentre le truppe dell’Isis sono presenti nella zona tra il Mali e il Niger. In
Africa occidentale gli italiani sono ben visti, perché non sono considerati alla
stregua di colonizzatori e anche dove lo sono stati, come in Libia o nel corno
d’Africa, la loro parentesi coloniale è vista come una sorta di sviluppo per
quei paesi, non come un’oppressione. L’Italia, però, deve avviare una strategia
di comunicazione efficace. La Francia ha creato ”Canale France International”,
che trasmette in tutta l’Africa, e nulla impedisce all’Italia di creare una
radio, che in tutti i paesini e nei villaggi sia un elemento fondamentale.
Oggi i finanziamenti vanno ottimizzati con progetti mirati
soprattutto in campo agricolo: in Niger ancora ricordano il Progetto Keita,
perché un capo-progetto, costruendo pozzi, è riuscito ad approvvigionare
d’acqua tutti i villaggi del posto. Cosa che i francesi non sono in grado di
fare.
Anche in Iraq l’integrazione tra civili e militari funziona
perfettamente, perché l’esercito italiano è tecnicamente eccellente anche in
una componente che altri non hanno, cioè il CIMIC, un reparto di specialisti
nel soccorso e nella ricostruzione di aree sconvolte da conflitti. In Kosovo,
per esempio, il Genio Ferrovieri italiano è stato chiamato dagli inglesi a
ripristinare la linea ferroviaria kosovara, perché in Europa era l’unico in
grado di farlo. La politica estera deve essere fatta appoggiando queste
iniziative.
Per l’Africa l’unica soluzione sarebbe un nuovo Piano
Marshall, però, attualmente non esistono le condizioni.
E poi, per avere un impatto vero, oltre ai paesi
occidentali, dovrebbe includere anche Russia e Cina. I cinesi hanno stanziato
fondi per 50 miliardi di dollari, mentre l’Europa per ora ha stanziato circa
500 milioni di euro su un progetto che dovrebbe arrivare chissà quando a 4,7 miliardi
di euro, meno del 10 per cento di quanto stanziato dalla Cina. I cinesi, però,
cominciano a essere odiati, perché è molto difficile farli convivere con gli africani
e perché sono culturalmente razzisti, anche con gli europei. In Africa un Piano
Marshall funziona solo favorendo lavori ad alta intensità di manodopera, che
impiegano molti giovani nella costruzione di opere di cui l’Africa è carente: grandi
infrastrutture, importanti opere di collegamento, servizi utili alla sanità,
all’agricoltura, alla pesca e alla rete idrica. Inoltre, occorre tenere conto delle
differenti culture. Per esempio, nel mondo arabo ho riscontrato che era inutile
rivolgersi agli uffici preposti, perché o il direttore era assente oppure aveva
una lunga fila di questuanti fuori dalla porta. Invece, andare a casa loro è un
grandissimo onore, pur di ostentare la loro ospitalità farebbero qualsiasi
cosa. Pertanto, quando dovevo negoziare, dicevo: “In ufficio non posso venire,
vengo a casa tua?”.
Il direttore con cui dovevo parlare era disponibile a
qualsiasi ora. Lo incontravo sotto la tenda e gli facevo firmare i documenti
davanti a una tazza di the.
È così che ho incominciato a imparare l’arte dei negoziati
in quei paesi.
Chi emigra in Europa, per ogni viaggio paga individualmente
dai cinquemila ai seimila euro per andare dal Sahel alle coste del Mediterraneo
sui barconi. Con questa cifra, una famiglia di un paese poverissimo della
Somalia potrebbe creare un business (un piccolo ristorante) e stare bene per
decine di anni. Perciò, c’è da domandarsi chi finanzia questo fenomeno. I
terroristi che ricattano le famiglie? Le famiglie stesse? Poi, i migranti che
arrivano in Italia devono restituire i soldi. Anche le famiglie sono fameliche
e quando ti prestano soldi sono quasi come i terroristi, le devi pagare. E se
uno non trova lavoro, non viene integrato, allora è quasi obbligato a diventare
un criminale.
L’Italia dovrebbe appoggiare l’OIM (Organizzazione Internazionale
per le Migrazioni), un’agenzia collegata alle Nazioni Unite che lavora per riportare
gli immigrati nel loro paese d’origine e che stanzia i fondi con cui potranno
costruirsi un’attività in loco.
In più, in Italia vivono tanti nigeriani, che in Africa
fanno paura agli stessi africani, perché la mafia nigeriana, che anche in
Italia comincia ad attecchire, è la più sanguinaria e la più potente di tutta
l’Africa. Come mai vengono tutti questi nigeriani in Italia? Perché noi li accettiamo.
E loro poi mettono in piedi strutture criminali.