FIBONACCI E LO SCACCO DELL’ALGORITMO
A capo di centinaia di ingegneri impegnati nel progetto di
costruire un “cervello”, un computer che s’istruisca elaborando, una “mente”
robotica, Google ha posto Ray Kurzweil, l’inventore del termine “singolarità”,
che designa la macchina “transumana”, in grado di sostenere una conversazione con
lo schema “domanda-risposta”. Il computer di Ray Kurzweil riconosce come
correlate, quindi come significative, le parole che ricorrono nella costellazione
linguistica attraverso relazioni di frequenza e di vicinanza spaziale. L’anomalia
viene scartata. Si costituisce così un modello di risposta, attraverso un
numero minimo di passi, calcolabili, misurabili e quindi prevedibili. Le
ricerche neurocognitiviste di successo in questa epoca “riconoscono” anche
nella “mente” umana questi modelli di risposta dettati dalla frequenza e dalla
vicinanza spaziale, che andrebbero a costituire i “comportamenti”.
Ma una mente siffatta è algoritmica.
Non è la mens come proprietà del tempo, cui
Machiavelli ascrive il governo della vita (“Da cosa nasce cosa e il tempo la
governa”). Il tempo della vita è il tempo nella struttura, nell’istruzione
del fare, il tempo pragmatico, non il tempo finito, misurabile e
risparmiabile dell’algoritmo. Questo tempo algoritmico serve non già al governo
della vita, ma all’“efficienza”, cioè al numero minimo di passi da fare per produrre
il massimo risultato che si trova già nella “mente” del programmatore: nessuna
sorpresa, nessuna invenzione! L’“efficienza” è l’idealità che regge la
proliferazione modulistica del sistema burocratico. Non c’è soluzione alla lentezza
e alla farraginosità burocratiche che non venga presentata come “soluzione
efficiente” per un risultato ideale, ripetibile, uguale. Un risultato convenzionale:
il risultato che ha sacrificato l’anomalia, il dettaglio, l’equivoco, la svista,
il malinteso. Il disturbo.
Ovvero, l’esperienza della vita, la memoria della vita, il
viaggio della vita.
Nel suo libro di prossima edizione, Urkommunismus. La
paura della parola, Armando Verdiglione indaga le proprietà dell’esperienza,
della memoria: la struttura dove la vita si registra (tre i registri: la
sintassi, la frase, il pragma) e si scrive fino al suo compimento (tre i
compimenti della vita: la legge, l’etica, la clinica). È effettivo (quindi
non ideale, non convenzionale) ciò che giunge al suo compimento attraverso un
processo intellettuale in cui nessun elemento viene cancellato, sacrificato, perché
disturba. Questo il viaggio della vita, il suo gerundio. Così, la struttura
sintattica dove, vivendo, viaggiando, intervengono sbagli e lapsus non è una
struttura disturbata, difettosa, da purificare. Né lo sono la struttura
frastica, con le sue sviste, la sua alterità, e la struttura pragmatica, con il
suo errore di calcolo, il suo errare (sognare, inventare) calcolando.
Non ci sono difetti nella struttura della vita
(nell’esperienza, nella memoria): è una struttura effettiva che giunge
al suo compimento attraverso registri intellettuali, perché non geometrici o algebrici.
Il viaggio effettivo non è un viaggio ideale, convenzionale, sottoposto al
criterio algebrico o geometrico dell’efficienza, criterio sacrificale.
L’altra proprietà del viaggio è l’effettualità: ciò
per cui, lungo il viaggio, intervengono effetti di godimento e di senso (nel
registro sintattico), di sapere e di ripetizione (nel registro frastico), di
verità e di riso (nel registro pragmatico).
Anche l’evento e l’avvenimento sono effetti pragmatici.
Anche il potere è un effetto pragmatico perché non è soggettivo. È il potere
del fare: è facendo che c’è il potere, non c’è l’uomo o la donna di potere.
Verdiglione scrive che il viaggio è la narrazione, il processo intellettuale
effettivo e effettuale.
Questa intoglibilità del viaggio, del processo della parola,
è risultata la costante inquietudine dei matematici, che hanno invano tentato
di escludere le proprietà intellettuali dai processi matematici. Lo notiamo
anche nel racconto di Fibonacci.
Leonardo Fibonacci nasce a Pisa nel 1202, da Guglielmo dei
Bonacci.
Il papà, mercante, lo porta con sé nei suoi viaggi in
Europa, Africa e Oriente, dove cura gli interessi propri e dei mercanti pisani.
Leonardo, sin da ragazzo, si occupa dei conti degli affari paterni.
Quando diventa grande viaggia da solo nel Nordafrica, poi si
dirige verso Costantinopoli, attraversando la Siria e l’Anatolia, e entrando in
contatto con le novità che in quelle regioni arrivano dal lontano oriente.
Fibonacci impara i metodi di calcolo degli arabi, che a loro volta hanno
imparato dagli indiani. Gli indiani, per moltiplicare per 10 un numero e abbreviare
la scrittura dell’operazione, inseriscono un posto vuoto (con il valore di
zero) dopo il numero: sunya in sanscrito, cifr in arabo, zefiro
in italiano, poi zevero, zero.
Leonardo Fibonacci porta in Europa i nuovi modi di calcolare
e diventa notissimo. Nasce la leggenda di come egli sia in grado di risolvere
in un istante i calcoli che servono ai re per le loro amministrazioni. Così
Federico II di Svevia lo chiama per una gara con i matematici di corte. Qual è
il quesito che pone l’imperatore? Si tratta di calcolare quante coppie di
conigli possono essere prodotte da una coppia di conigli in un anno. Fibonacci
riporta il racconto nel suo Liber abaci: “Un certo uomo mette una coppia
di conigli in un posto circondato su tutti i lati da un muro. Quante coppie di
conigli possono essere prodotte dalla coppia di conigli in un anno, se si
suppone che ogni mese ogni coppia genera una nuova coppia, che dal secondo mese
in avanti diventa produttiva?”.
Fibonacci dà subito la soluzione: 233 coppie di conigli. Il
suo calcolo è questo: ogni mese ogni coppia di conigli genera un’altra coppia
che comincia a procreare a partire dal secondo mese di vita. Al primo mese c’è
solo una coppia di conigli, al secondo mese ce ne sono 2 di cui una è fertile,
quindi al terzo mese ce ne sono 3 di cui 2 fertili, perché l’altra ha un
intervallo di un mese. Ciascuna coppia ha la sospensione di un mese, il
risultato di quel mese è dato dalla somma dei due numeri che precedono. Il
quarto numero che è il 3 è dato dalla somma dei numeri che lo precedono (cioè
il 2 e l’1), il 5 è dato dalla somma dei due numeri che lo precedono (3 e 2),
anche il 55 è dato dalla somma di 21 e 34.
Questo è l’algoritmo, che è scomponibile in tanti piccoli
algoritmi uguali.
È possibile fare un numero enorme di calcoli perché
l’algoritmo minimo è ripetibile: ogni numero è dato dalla somma dei due numeri
precedenti.
Questa è la famosa “progressione” di Fibonacci.
Ma qual è l’inghippo? Che c’è una precondizione alla base
del meccanismo: i conigli sono circondati su tutti i lati da un muro. E
il “muro” esclude i conigli dal disturbo, dal tempo, dall’imprevisto, ovvero
dalla vita.
Il “muro” deve assicurare che niente turbi la supposizione
di partenza (“ogni mese ogni coppia genera un’altra coppia”). Potrebbe infatti
accadere che una coppia di conigli non procrei ogni mese una cucciolata; che la
coppia neonata non sia costituita da un maschio e una femmina; che la femmina o
il maschio abbia le sue ubbie o i suoi ghiribizzi, e non procrei con la regolarità
necessaria al calcolo; che un coniglio sia indisposto o si ammali o muoia
nell’arco dell’anno. Tutto questo deve essere escluso dall’algoritmo.
Per i matematici di ogni epoca, in particolare quelli fra
ottocento e novecento (Hilbert, Dedekind, Goedel), si è posta la stessa
questione che si pone il discorso paranoico: erigere un “muro” intorno al
processo di calcolo, in modo da escludere il disturbo, l’infinito,
l’intellettualità, la vita. Ma il processo della parola, nella cui struttura
sta anche il calcolo, è intellettuale. L’algoritmo assoggetta l’infinito al calcolo,
assoggetta il tempo della sorpresa e dell’imprevisto alle risposte già incluse
nella domanda, quindi toglie l’effettività e l’effettualità a favore
dell’efficienza.
Ciascun processo intellettuale, ciascun processo di
valorizzazione costituisce una prova narrativa (un viaggio), con i suoi effetti
di godimento, di sapere, di verità, con l’avvenimento e l’evento. È Machiavelli
a chiamare la verità “verità effettuale” (Il Principe, XV): “Ma sendo
l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare
drieto alla verità effettuale della cosa, che alla imaginazione di essa”. Oggi
il calcolo che decide, in una banca, l’erogazione di un fido a un imprenditore
è affidato al computer, se i dati forniti dall’imprenditore rispettano la
sequenza predisposta con l’algoritmo (quindi l’immaginazione del
programmatore). Ieri, era la verità effettuale nel racconto dell’imprenditore al
suo direttore di banca, era la prova narrativa a compiersi nella scrittura che
accordava il fido.
L’algoritmo erige un muro senza suono, senza corda, senza
viaggio fuori dalla cinta muraria, dalla vita inquadrata nel cerchio. Ma questa
esclusione del viaggio, della pulsione della vita, del “va e vieni”, resta
ideale.
Nel dramma di Georg Büchner, La morte di Danton (1835),
il personaggio Camille Desmoulins suggerisce, parlando con Danton, che la
matematica non sia estranea a quel “difetto” di calcolabilità che separa i
pensieri dalla loro esecuzione, i pensieri dall’azione.
Qual è il progetto della calcolabilità algoritmica? Che il
viaggio dal pensiero all’esecuzione sia senza difetto.
Il “dramma” sorge quando si applica l’algoritmo: io penso un
coniglio e lo metto in un muro, perché nel mio pensiero il coniglio non può avere
scappatoie.
Ma non c’è passaggio all’azione del pensiero. Questa è
l’idealità della matematica fra l’ottocento e il novecento: ha cercato di
tradurre l’idea per l’azione. Ma il pensiero, l’idea, non agisce: è operatore
per la prova narrativa, per la scrittura dell’esperienza.
L’algoritmo è l’idea che agisce, è il coniglio messo dentro
quattro mura.
Infatti, l’ideale della coppia “creativa” su cui discettano
le logìe dell’epoca (psicologia, sociologia, antropologia), la coppia
dell’indovinello, è di avere due figli: un maschio e una femmina.
Qual è la domanda che si pone Desmoulins? ”Per quanto tempo
ancora noi, algebrici della carne, dovremo scrivere i nostri conti con le
membra tagliate, alla ricerca di quella ‘x’ sconosciuta e eternamente
rifiutata?”. È la questione che ha portato alla ghigliottina.
La “x” da rifiutare, di cui scrive Büchner, è la dissidenza
del numero.
E il viaggio, il processo intellettuale, è secondo questa dissidenza.