NIENTE E NESSUNO PUÒ TOGLIERE LA DIFFICOLTÀ DELLA PAROLA
Nelle aziende modenesi rinomate per le lavorazioni
meccaniche di precisione, come la storica Officina Bertoni Dino – che lei ha
rilevato quattro anni fa – e l’Officina Meccanica Bartoli – fondata da suo
nonno nel 1961 –, quanti e quali dispositivi di parola occorre instaurare ciascun
giorno con i clienti, con i collaboratori e con i fornitori? Anche se
internet e i social media apparentemente hanno reso più semplice e immediata la
comunicazione nei vari ambiti della vita – compresa l’azienda, dove sempre più
spesso si utilizza WhatsApp anche per i messaggi di lavoro –, in realtà niente
e nessuno può togliere la difficoltà della parola. Parlare non è mai stato
facile e mai lo sarà, anche se c’è chi crede il contrario e spaccia ricette più
o meno banali per “superare i blocchi” e divenire “brillanti oratori”.
Nell’impresa, come nella vita, ciascuno constata che non s’impara mai a
parlare, perché ciascuna volta è differente dalle altre e ciascuna
conversazione con un cliente o con un collaboratore, anche la più semplice e
pragmatica come quella per descrivere un compito da svolgere, non può evitare
l’equivoco, la differenza, il malinteso. Allora, cosa dovremmo fare? Dire
qualsiasi cosa perché tanto non si può arrivare all’efficacia assoluta della
comunicazione? Il contrario: proprio perché c’è questa difficoltà intoglibile,
a maggior ragione, occorre il massimo grado di cura e di attenzione. Nella mia
giornata incontro tante persone e non posso pensare di parlare con un cliente
allo stesso modo in cui parlo con un collaboratore o con un altro cliente;
ascolto ciascuno e cerco di evitare non soltanto i pregiudizi, ma anche i
giudizi intorno alle cose che ascolto. E spesso mi lascio coinvolgere a tal
punto dal racconto di ciascuno che al termine della giornata ho l’impressione di
non sapere più chi sono.
Ovvero, non ha più l’idea di sé? Infatti, nella
giornata dell’imprenditore, potremmo dire in termini pirandelliani che la
maschera a cui ognuno tende ad affezionarsi viene meno: le maschere sono tante,
ma nessuna di esse è falsa, fanno parte del teatro, della commedia dell’arte
che ciascuno recita sul palcoscenico della vita, anche se spesso non se ne
rende conto.
E il teatro è indispensabile nell’impresa: come sarebbero le
giornate se tutto si riducesse a un dialogo stereotipato in cui il cliente
ordina qualcosa e il fornitore semplicemente gli dà il prodotto o il servizio
richiesto? Invece, quanto è più bello e divertente contrattare sul prezzo o
sulla consegna, giocare e alzare la posta quando ci si accorge che ci sono i
termini per farlo, far desiderare, in breve, non prendersi troppo sul serio. Io
amo la bellezza che sta nei contrasti, nei paradossi, non nell’armonia sociale.
Non possiamo pensare di trovarci ancora nei rapporti di
vassallaggio, come invece purtroppo continuano a credere alcuni piccoli
imprenditori nei confronti dei grandi gruppi per cui lavorano. Nell’impresa,
come nella vita, non esiste un modo di porsi che sia sempre giusto e che dia
sempre risultati interessanti nella gestione delle cose: è una scommessa ciascuna
volta e dipende da mille fattori che intervengono in quel momento e che giocano
un ruolo imprevedibile.
Allora, non ci resta che ascoltare e cercare d’intendere ciò
che occorre dire e fare. E, in un’azienda meccanica, occorre ascoltare anche i
macchinari, perché sono vivi e magari hanno bisogno di essere spostati per
raggiungere una disposizione più funzionale alla struttura nel suo complesso.
Anche quelli che i collaboratori instaurano con i macchinari sono dispositivi
di comunicazione. E accade che ciascuno, lavorando, scopra il proprio tallone
d’Achille. Per esempio, c’è chi non può lavorare con gli utensili piccoli.
Perché? Perché tutte le volte che deve eseguire lavorazioni
su pezzi piccoli, per un motivo o per l’altro, si rompe l’utensile. È come una
maledizione.
Forse, è una “dizione”, un dire, che non si articola con
le parole, ma con un atto mancato. Il saggio di Freud Psicopatologia della
vita quotidiana analizza proprio gli atti mancati come traduzioni di
qualcosa che non osa dirsi attraverso la via verbale… Gli atti mancati sono
all’ordine del giorno e, d’altra parte, quando si lavorano migliaia di pezzi, è
impensabile che non ci siano errori. Io invito ciascuno a comunicare l’errore,
anziché nasconderlo, perché l’errore è umano.
Comunicarlo vuol dire porre rimedio subito all’errore,
anziché introdurre complicazioni e produrre inefficienze.
Cose che in un’azienda moderna non sono ammesse e, anche per
questo, i controlli qualità sono molto più numerosi che in passato, quando le conseguenze
di un errore potevano ripercuotersi sul prodotto finito.
Io credo che il dispositivo di comunicazione vincente del
terzo millennio sia quello in cui non ci si vergogna di ammettere la propria
umanità: se per caso ti sei sbagliato, chiedi scusa, anziché chiuderti e
provare vergogna per paura della punizione come se davanti avessi
l’inquisitore. A nessuno oggi è più chiesto di diventare perfetto come nella
pubblicità degli anni ottanta, quando si doveva sfoggiare una forma fisica
smagliante e una mente geniale, unita a tutti i simboli del successo.
Purtroppo, alcuni vivono con tanta ansia, perché non riescono a perdonarsi
l’errore… A volte, sembra che alcune persone abbiano bisogno di darsi la
pena… Io cerco di non dare mai colpe a chi sbaglia qualcosa, perché capisco
che nell’ambiente lavorativo si cerca costantemente di fare incontrare un individuo
– con tutta la sua storia, la sua memoria, la sua particolarità – e una realtà
meccanica, che deve tendere a funzionare sempre nello stesso modo. È un
incontro impossibile, che tuttavia può accadere ciascun giorno, anzi, in
ciascun istante. E quando accade sembra un miracolo.
Soprattutto quando c’è qualcosa che non va e, poi, qualcosa
si sblocca e immediatamente trae con sé anche il resto, anche quello che
sembrava destinato a non andare più. La vita dell’impresa c’insegna che la
comunicazione non è mai abbastanza: a volte, si discute di un problema per ore
e non si trova una via d’uscita; poi, improvvisamente, interviene una piccola
variazione nel ragionamento e si capisce come fare, per cui ci si sorprende per
non averci pensato prima.
Parliamo invece della comunicazione adottata dalle
aziende della meccanica per promuoversi sul mercato. Com’è cambiata negli
ultimi anni? Rispetto alla comunicazione esterna, le piccole e medie
aziende del nostro settore stanno vivendo un momento veramente difficile.
Le aziende che hanno trenta o cinquant’anni, come la nostra,
non avevano problemi di comunicazione con i potenziali clienti, il loro nome
era una garanzia di qualità e di eccellenza, per cui un cliente che voleva la
tranquillità di una stozzatura o di una brocciatura impeccabile portava il
pezzo alla Bertoni Dino: era ciò che gli suggeriva di fare chiunque fosse del
mestiere. Il nome era frutto di decenni di lavoro serio, onesto e qualificato.
Oggi, per “farsi un nome” basta adottare una politica di marketing agguerrita e
posizionarsi ai primi posti sui principali motori di ricerca, che consentono di
farsi trovare, perché nessuno cerca più una ditta informandosi sul posto o
guardando i cartelloni stradali.
Tuttavia, la qualità del servizio e l’innovazione costante
pagano ancora, l’abbiamo visto nel periodo della crisi, quando chi non ha
investito nel miglioramento della propria offerta è stato costretto a chiudere.
Quelle che hanno resistito dovrebbero rilanciare i dispositivi di comunicazione
valorizzando il più possibile l’eccellenza delle aziende meccaniche come se fossero
un’unica grande realtà, che accoglie persone con grande professionalità e può
divenire una fonte di speranza per le generazioni future.