UN MAESTRO DI VITA RACCONTA AGLI STUDENTI

Qualifiche dell'autore: 
presidente di Crimo Srl, Modena

Il caso della provincia di Modena è emblematico a livello internazionale del modo in cui l’istruzione tecnica e professionale nel campo della meccanica ha contribuito allo sviluppo di un tessuto industriale fra i più prosperi del pianeta.
In questo senso, l’Istituto “Fermo Corni”, fondato nel 1921, ha costituito un riferimento cruciale per la formazione di intere generazioni di imprenditori, tecnici e operai qualificati delle industrie meccaniche modenesi. Quest’anno, il Premio Fermo Corni, giunto alla quindicesima edizione, è stato assegnato a lei, per i traguardi raggiunti con la Crimo, l’azienda da lei fondata trent’anni fa, riconosciuta come una fra le prime in Italia nel settore delle ruote industriali. Ha raccontato qualche aneddoto della sua avventura agli studenti nel suo intervento alla cerimonia di premiazione (Modena, 24 novembre 2018)? Gli “Amici del Corni”, organizzatori del Premio, chiedono al premiato di tenere una lectio agli studenti, con il duplice intento di sottolineare l’importanza della scuola e di metterli in guardia perché nel lavoro saranno valutati senza sconti o giustificazioni: chi non ha conseguito risultati adeguati nella preparazione scolastica sarà escluso dalle opportunità migliori e dovrà accontentarsi di ciò che capita.
Pertanto, ho augurato ai ragazzi di avere lo stesso “diavoletto” che mi ha sempre pungolato e non mi ha mai permesso di rimanere fermo ad aspettare. Ho incominciato prestissimo, come ragazzo di bottega, come tanti nel dopoguerra, in una piccola officina, poi alla Fiat, dove il mio lavoro mi piaceva al punto che, dopo avere terminato il compito che mi era stato affidato, andavo a lavorare alla macchina del mio vicino, che era più impegnativa e faceva pezzi diversi dalla mia. Ma, una volta acquisita la conoscenza delle strumentazioni, mi resi conto che non mi bastava, volevo crescere, e non c’era alternativa: bisognava andare a scuola, è la scuola che ti fa crescere. Così, m’iscrissi alle serali e, per frequentare le lezioni, che erano al pomeriggio, al lavoro facevo il turno della mattina o della notte. Quando alla Fiat mi nominarono caposquadra, il mio diavoletto mi disse che dovevo fare qualcosa di nuovo. Così, abbandonai un posto sicuro – mio padre per poco non ebbe un infarto – e andai a lavorare in una piccola azienda, con una ventina di dipendenti e appena mille metri quadrati di capannone, la Tellure Rota, che oggi è l’azienda leader nel settore delle ruote industriali. Ho lavorato lì per quindici anni e l’ho accompagnata fino al trasferimento allo stabilimento di Formigine di seimila metri quadri. A questo punto voglio ricordare con affetto il suo fondatore, Roberto Lancellotti, scomparso di recente, che mi è stato di grande aiuto nella crescita professionale. Poi, il mio diavoletto non mi dava pace, quindi mi licenziai per mettermi in proprio.
Fu un momento veramente difficile: era una di quelle decisioni che non potevo prendere da solo, coinvolsi mia moglie e la mia famiglia, e partimmo. Non dormivamo la notte tanta era la paura all’inizio, quando tutto era nuovo.
Però, ce l’abbiamo fatta, l’azienda è cresciuta, ha incominciato a navigare da sola, anche in acque mosse, e adesso devo dire che, almeno in Italia, possiamo considerarci fra i primi produttori di ruote industriali e siamo anche specializzati nella produzione di ruote molto grandi per impianti di depurazione.
È un messaggio molto importante per i giovani: non lasciarsi spaventare dalle difficoltà. Ha rivolto anche altri inviti ai ragazzi? Sì, li ho invitati a prepararsi, perché il mondo che li aspetta è molto più complicato di quello che abbiamo affrontato noi nel dopoguerra; a mettere i doveri prima dei diritti, perché nella vita occorre avere umiltà, anziché pretendere che siano gli altri a capire le nostre esigenze; poi, a non fermarsi al lavoro, perché nella società c’è bisogno del nostro contributo anche nell’ambito sociale; infine, a essere costruttivi, a non abbattersi mai e, quando capita di cadere, a rialzarsi più forti di prima, perché l’avvenire ha bisogno di uomini e donne forti, che scommettano nella famiglia, che siano fieri di essere italiani e considerino l’Europa la loro casa.
Oggi i giovani dove trovano maestri per apprendere queste lezioni di vita? Purtroppo, oggi c’è uno scollamento incredibile fra la famiglia e la scuola, che non giova alla formazione dei giovani. Ai miei tempi, se un ragazzo tornava a casa con un brutto voto doveva fare i conti con i genitori, che non andavano certo a lamentarsi con l’insegnante, come avviene adesso.
Sembra facile retorica, ma è vero che siamo stati troppo permissivi con i nostri figli e i risultati sono quelli che abbiamo sotto i nostri occhi: rischiano di soccombere dinanzi alla minima difficoltà e continuano ad appoggiarsi ai genitori fino a trent’anni. Questo perché volevamo dare ai nostri figli ciò che non abbiamo avuto noi, senza pensare che proprio quello che non abbiamo avuto ci ha fatto bene, ci ha spinto a fare cose che altrimenti non avremmo mai fatto. Viene da lì, da ciò che non hai, il desiderio, l’ambizione, il famoso diavoletto che non ti lascia in pace, finché non arrivi al traguardo, per poi ricominciare a pungolarti con un’altra meta, non appena hai raggiunto quella precedente.